Riprendiamo qui di seguito l’articolo a cura di Gian Mario Ricciardi, pubblicato sul settimanale «La Voce E il Tempo» del 26 aprile 2020.
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L’immagine di Cristo Redentore, nel cielo alto di Rio de Janeiro, illuminato con il camice e lo stetoscopio, è quella più eloquente: Gesù, medico per tutti, nel chiaroscuro di un mondo in preda alla paura. Sono stato lassù, insieme con un missionario che vive da 40 anni in una favela, proprio attigua a quella che ha accolto Papa Francesco. Era un giorno pieno di sole e di allegria brasiliana. Mai più avrei immaginato che quel Cristo così immenso, grande, gigantesco, monumentale, potesse diventare, d’improvviso, in un giorno qualunque d’una primavera ferita, la fotografi a di una nuova Resistenza. Perché, certo, scorrere i volti (oltre 100 e sono tutti storie di una vita) dei «dottori», delle «dottoresse» e dei farmacisti, che sono caduti sul fronte del Coronavirus, è un’operazione da brividi.
Quanti di loro «fino all’ultimo respiro» sono stati missionari della vita! Venivano dalla rianimazione, dai vari primariati che gestiscono la nostra salute, dalla prima frontiera dei medici di famiglia che, sul territorio, per primi, si sono scontrati con questo maledetto virus. Spesso, troppo spesso, lo hanno fatto soltanto rispondendo al giuramento di Ippocrate, sacro nell’antichità e ancora ripetuto dai nostri laureati in medicina all’esordio della professione. Ma l’hanno fatto e sono caduti.
E con loro i nostri sacerdoti: hanno assistito fino all’ultimo respiro una generazione che se ne è andata, improvvisamente. Lo hanno fatto e lo fanno con l’amore e Dio nel cuore. Lo dimostra la telefonata di Papa Francesco a monsignor Derio Olivero, vescovo di Pinerolo che, speriamo, lentamente ce la sta facendo. Oltre cento, come i medici nel nome del Signore: per alleggerire il dolore, per portare il soffio dello Spirito Santo. Sono soli di fronte al dolore, all’incontro, troppo spesso, tra vita e morte. Onore a loro!
Il 25 Aprile immaginiamo di incontrare sui sentieri della Resistenza, dalla Valle di Susa alle Langhe e al Roero, i nostri partigiani, di qualsiasi colore; li ‘vediamo’ correre, attaccare, difendersi. E, ogni volta che ci imbattiamo in una lapide che li ricorda sulle piazze delle città e sulle strade della vita, ci fermiamo, pensiamo, forse, preghiamo. Ecco, d’ora in poi, facciamolo per loro: i nostri sanitari, i farmacisti, gli infermieri e le infermiere, i tecnici, i sacerdoti. Hanno fatto, e stanno facendo, l’impossibile. In loro, in queste settimane interminabili, morte e vita si sono incontrate: in giorni e notti senza albe e tramonti, senza cartellini da bollare, senza requie.
Gli atti di vero eroismo non si contano da Bergamo a Busto Arsizio, da Bra a Pavia, Crema, Palermo, Aosta. I medici sono sempre stati, e continuano ad essere, in prima fila, quella che, storicamente, conta il maggior numero di caduti nelle guerre. Ma, spesso, li abbiamo mandati a combattere, come nella Prima guerra mondiale, con vecchi moschetti contro cannoni: samurai senza protezioni, Davide contro Golia. Errore gravissimo!
E che dire di coloro, migliaia, che magari agiatamente in pensione, sacrificando la tranquillità di rapporti con moglie e figli, sono tornati in trincea. Se il servizio sanitario nazionale, taglieggiato da colpevolissimi risparmi, ha retto e non è andato in default, lo deve alla loro fierezza e al loro impegno. Ciò vuol dire accogliere con un sorriso chi ti arriva con la disperazione e lo sconforto negli occhi; cercare la miglior cura, sia pure sperimentale, controllare in ogni momento i numeri sugli strumenti, sul computer, sul cellulare.
Gli applausi a loro, dall’ospedale Martini alle finestre di Madrid, dicono tutto. Semplicemente. Sono persone che stanno attraversando, o lo hanno fatto, il palcoscenico, spesso minato, dei nostri ospedali; gente che, a volte, ha subito ingiustizie nelle nomine dei primari, nell’attribuzione delle competenze, nella scelta dei ruoli, ma una volta trovatisi di fronte alla più grande emergenza del secolo, ha messo da parte rancori, delusioni, ingiustizie per buttarsi, anima e corpo, nell’aiuto alla vita. E spesso nel trambusto e nel caos dei giorni più feroci della pandemia, hanno tentato (loro e gli infermieri) di far parlare, per l’ultima volta, i malati con i parenti.
Mi è rimasta impressa nel cuore la richiesta di un morente ad una dottoressa in Lombardia: «Dica per favore a mia moglie che la amo!». Terribile, ma vero. E poi le telefonate nelle varie case, i tablet. Certo, non hanno potuto fare tutto e molti dei loro pazienti non ce l’hanno fatta e sono morti, forse, da soli. Con loro l’eroico – come diceva San Giovanni Paolo II – è diventato quotidiano e il quotidiano è diventato eroico!
Quello dei medici è stato un silenzioso addio che può essere paragonato solo a quello dei sacerdoti: gli uni tentavano di strappare la salvezza, gli altri di portare, con Dio, un soffio di speranza. Quarta nel mondo per qualità, la nostra medicina pubblica sta reagendo con genio, nobiltà e coraggio, degni del miglior giuramento di Ippocrate di tutti i tempi. E che dire dei sacerdoti! In silenzio, con discrezione, dolore e compassione ci sono vicini: ai malati in ospedale, ma anche a quelli che stanno a casa e nelle case di riposo! Grandi!
E, allora, percorriamo con medici, farmacisti, infermieri e preti questo storico, strano, sanguinante 25 aprile. Loro, infatti, hanno ascoltato le parole di chi ci ha lasciato e i loro silenzi e devono accompagnare assolutamente i nostri passi sul sentiero della memoria di un Ventunesimo secolo che mai avremmo voluto vivere così.
Gian Mario RICCIARDI da «La Voce E il Tempo» del 26 aprile 2020