Ci sono temi che stanno da sempre al confine. Guardati da una prospettiva sembrano abitare uno spazio, osservati dall’altra paiono passare dall’altra parte della frontiera. Sono come gemelli eterozigoti che condividono molti tratti comuni, ma che si differenziano in quelli più caratterizzanti l’identità. È il caso che interessa il binomio «giustizia e carità». Tornarci su dopo le migliaia di pagine scritte da valenti teologi e moralisti, giuristi, filosofi e sociologi, economisti e anche da qualche raro uomo politico parrebbe esercizio inutile, o perlomeno noioso. Invece si tratta di tema tremendamente scottante e di una attualità vivissima. Ne sanno qualcosa intere popolazioni o parti di esse stremate dalla ignavia di classi dirigenti che sembrano galleggiare in mondi paralleli. Potrebbero portarne testimonianza coloro che, espulsi dal mercato del lavoro si sono trovati a fare i conti con un deficit che è soprattutto di dignità. Ce lo dicono con sofferenza tanti operatori umanitari nazionali ed internazionali che si vedono caricati di una missione suppletiva che assorbe risorse sempre e solo «donate» e quasi mai pianificate da una programmazione gestionale del bene comune. Ma se guardiamo con attenzione alle scelte politiche, amministrative e del cosiddetto sentire comune ci accorgiamo che anche tra noi, nel qui ed ora, quel binomio è ancora lontano dall’essere interpretato con lungimirante coerenza. La lunga crisi economica, la non meno forte e pericolosa crisi politica cui stiamo assistendo impotenti ed estromessi, la fluidità di una cultura in cambiamento e sempre più ancorata alla opinione di chi ha i mezzi, hanno messo in luce quanto poco siamo riusciti ad interpretare il ruolo generativo della giustizia e lo specifico profetico della carità. Salvo alcune lodevoli eccezioni, il problema viene bellamente mascherato con gli intenti di collaborazione e di sinergia, talora buonistici talaltra troppo pragmatici anche solo per essere credibili. Così, nel silenzio del non pubblicamente detto, pensiamo: «quanto la giustizia non riesce a fare (o non può o non vuole fare), lo compia la carità». Carenza di risorse, difficoltà organizzative, revisioni di sistema stanno esaltando la carità come elemento suppletivo o addirittura sostitutivo della giustizia. E così, spesso con il benestare anche degli operatori del privato sociale, la carità dovrebbe colmare il gap della giustizia, facendoci stare tutti interiormente tranquilli nella più assoluta confusione. Confondere i ruoli non giova a nessuno e, soprattutto, non cura la dignità di persone e società. Ci sono beni e doveri che sono propri della giustizia e senza i quali nessuna «umanità» può prendere forma. Beni che attengono alla dignità profonda delle persone e non solo dei «cittadini», che vanno messi a disposizione in virtù dello stesso bene comune che sostiene la vita civile di un consesso umano. Sono le opportunità di fondo che occorrono alle persone per poter costruire la propria vita mettendo in gioco se stessi: libertà, istruzione, possibilità di una sopravvivenza anche nei tempi difficili, pari opportunità senza egualitarismo spersonalizzante, esercizio della scelta religiosa, difesa della vita, possibilità di cura della salute, accesso alle risorse comuni, autodeterminazione. E solo per fare alcuni esempi. Di tali necessità siamo tutti convinti. Ma, troppo spesso, solo a parole. Le opportunità di contro non sono riducibili a pie esortazioni: sono scelte, decisioni, programmazioni, visioni, azioni concrete, priorità. Che spesso non ci sono. Come un reddito minimo che tenga sopra il livello di sussistenza tutte le persone in modo che queste possano attivarsi nel percorso di crescita. O come alcuni livelli essenziali di prestazioni e servizi che la collettività non può prevedere solo nell’ambito sanitario. Non possiamo accettare passivamente che la fruizione di un diritto sia legata alla maggiore o minore facilità di reperire le risorse economiche necessarie. Come non si può più accettare che servizi e opportunità dovute per dignità siano messe in campo solo grazie alla carità di qualcuno. Fare tutto ciò «per carità» non è la stessa cosa. Perché la carità offre beni relazionali, oggetti di fraternità, occasioni di umanizzazione, calore di incontri. Carità è dono gratuito di sé stessi prima che di cose e servizi. La solidarietà è compimento e non sostituzione perché, innestandosi sulla giustizia, le offre quella dimensione ricca che fa dell’inclusione sociale vera famigliarità, delle opportunità di crescita attivatori di responsabilità, dei servizi punti di partenza verso un farsi carico complessivo di sé, dei progetti veri cammini comuni di comunione e condivisione. Senza la carità la giustizia è imperfetta, sempre. Ma senza la giustizia la carità necessariamente decade e si appiattisce sulle dimensioni di una operatività che non è bella concretezza ma minimalismo, sostituzione, delega impropria. Purtroppo così non si pensa nemmeno nelle stanze dei bottoni. Lo ha confermato pochi giorni fa il dispositivo di una sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato una donna indigente rea di essersi appropriata di alcuni pezzi di formaggio in un supermercato torinese. Nulla da eccepire sulla decisione. Ma nella motivazione giace un tema che delude. Stando a quanto i giornali hanno riportato verrebbe detto che «alle esigenze delle persone che versano in tale stato è possibile provvedere per mezzo degli istituti di assistenza sociale, per esempio la Caritas». Così sprofondiamo in una ottica riparatrice che, forse, tura le falle di un sistema aprendone altre sempre più grandi, rinunciando ad andare alle cause. La lotta alla povertà non si fa con la carità, ma con la giustizia sorretta dalla carità. Se mancano le condizioni di dignità non possiamo continuare a mettere cerotti, rattoppi nuovi su vestiti logori e senza consistenza. Carità e giustizia sono le due facce di una sola responsabilità che va assunta e condivisa da tutta la società, a partire dalle sue Istituzioni. La giustizia non investe per creare “assistiti” ma per rendere autonomi, liberare, generare. La vera carità sostiene il percorso di liberazione e lo rende profondo, onnicomprensivo, comunitario, condiviso. La prospettiva è quella che cinquantadue anni fa fu scritta in uno dei più scomodi documenti del Concilio Vaticano II, la Gaudium et Spes: «Justitia duce, caritate comite – la giustizia guida, la carità accompagna» (69). Un orizzonte difficile da digerire dalla Chiesa di allora, che tradusse il testo in italiano edulcorando il peso dei termini fermandosi alla sola inseparabilità di essi, ed indigesto per molte Istituzioni e gruppi politici nella situazione di oggi. Non si può accettare la supplenza passiva della solidarietà, mossa da esigenze del cuore e dell’anima, rispetto ai doveri della giustizia sociale, guidata dalla Costituzione e dall’imperativo laicamente etico della società democratica. Mentre la solidarietà sta mettendosi in gioco in maniera seria e continuativa, come nei paesi sfregiati dal terremoto in Centro Italia o nelle situazioni di marginalizzazione di tanti nuovi poveri, bisogna avere il coraggio di partire dalla giustizia e di chiedere a gran voce che questo accada sempre. Come facevano ai loro tempi i profeti dell’Antico Testamento. Si scagliavano contro le ingiustizie sociali non perché fossero degli attivisti ante litteram dei diritti umani, ma perché il loro silenzio sarebbe equivalso all’ammissione di una connivenza di Dio con quel sistema iniquo. Fare inclusione sociale dei poveri, obiettivo chiaro della Chiesa in uscita ma anche tema caro a tante culture del nostro tempo, passa necessariamente da un modo più convinto di vivere i doveri di giustizia. Sia a livello della società civile con le sue istituzioni e i suoi corpi, sia a livello della comunità ecclesiale. Tenendo tutti ben presente che la condivisione concreta non è atto di carità, ma necessità di giustizia. Con buona pace di chi vorrebbe utilizzare la giustizia come strumento per proteggere i propri interessi facendone fare le spese alla dignità di chi è più debole.