Non ci è ancora passata la raucedine per le urla di domenica 11 luglio, quando la manona di Gigio Donnarumma è andata ad impattare l’ultimo rigore inglese, regalando all’Italia la vittoria agli Europei di calcio. Appena il tempo per ricomporsi e sono in partenza le Olimpiadi di Tokyo. Un altro momento topico di grandi imprese sportive, un’altra scorpacciata di vittorie e di sconfitte in mondovisione, di scontri sul terreno e di proclamazione di fair play e di spirito olimpico sulle tribune, al massimo grado e con la maggior esposizione mediatica che si possa concepire e mettere in atto.
Nel giro di poche settimane, abbiamo così due esempi lampanti di come lo sport abbia un ruolo socialmente e culturalmente di primo piano nelle società di oggi. Anche in prospettiva cristiana e cattolica, se è vero che Gianfranco Ravasi, il, big boss della cultura in Vaticano, per capirci, ha detto recentemente: «Ogni volta che all’interno delle comunità si pratica lo sport autentico, si scambiano dei doni».
La domanda è: a parte le dirette televisive dei grandi eventi e le telecronache al cardiopalma, ci possono essere anche altri modi di raccontare lo sport e la sua importanza effettiva nell’incidere nella società? Sì, ci sono. Prendiamo per esempio «Ghiaccio», il film documentario del torinese Tomaso Clavarino, presentato allo scorso Glocal Festival. Ci parla della vicenda di Kebba, James, Edward, Seedia, Lamin e Joseph: sei uomini africani under 30 accolti dalla Diaconia Valdese di Bobbio Pellice nel quadro del Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati.
Trapiantati tra le montagne, in attesa che la loro posizione venga esaminata per il riconoscimento dello status giuridico effettivo di rifugiato, i ragazzi, tra corsi di lingua e di formazione lavorativa, si avvicinano al mondo del curling, formano l’Africa First Curling Team, composta da soli richiedenti asilo e ammessa al campionato italiano. Storia di sport, dunque: ma anche di sopravvivenza, di cambiamento, di confronto con un mondo sconosciuto e con la logica burocratica e normativa dei processi di accoglienza.
Il ghiaccio di cui si parla nel titolo, non è solo quello del campo di gioco e delle montagne circostanti, ma fa riferimento anche alla freddezza nei rapporti, all’ibernamento in cui scivola la vita di chi attende che altri decidano del proprio destino. Evoca pure il silenzio e l’immobilismo di un territorio che, di suo, tende a spopolarsi e a diventare vuoto e marginale sempre più. Richiama non solo la durezza del materiale del campo di gara, ma quella, narrata senza buonismi, del dialogo e della integrazione tra due mondi così sideralmente lontani e diversi tra loro. In fondo, la metafora rappresentata dallo sport, è sempre la stessa: imparare a confrontarsi con le proprie capacità e i propri limiti, lavorandoci sopra tenacemente per raggiungere obiettivi e risultati, adattandosi alle situazioni e alle caratteristiche ambientali e relazionali in cui sei immerso.
Lorenzo CUFFINI da «La voce E il Tempo» del 25 luglio 2021