Qualche giorno fa il Presidente Mattarella ha denunciato l’uso eccessivo di acronimi nel linguaggio della comunicazione, suggerendo uno studio approfondito sulle sue conseguenze. Qualche mese fa era stato invece Mario Draghi a chiedersi perché mai dovessimo usare «tutte queste parole inglesi». Nel primo caso si è parlato della necessità di tutelare una lingua che sia democratica, nel secondo si è fatto riferimento a una sorta di ecologia linguistica. Entrambe le osservazioni sono condivisibili, certamente non nuove, tornate d’attualità in seguito all’impennata di sigle e vocaboli stranieri registrata con la pandemia. Come a dire: riprendiamoci l’italiano.
Messo in questi termini, però, il discorso non sempre funziona. Facciamo l’esempio di uno dei termini maggiormente sotto accusa: l’usatissimo caregiver, di cui generalmente viene proposta la sostituzione con l’italico «badante». Il guaio è che i due vocaboli identificano due figure e due ruoli completamente distinti. Con badante si intende un assistente professionale alla persona, mentre il caregiver sta ad indicare generalmente il familiare (o un vicinissimo) che si prende cura della persona assistita. Questo per iniziare: poi la galassia dei caregiver è talmente frastagliata che si sono già utilizzate le categorie di caregiver familiare, caregiver esclusivo, caregiver multiplo, caregiver genitoriale, caregiver filiale e così via, a seconda delle relazioni sottostanti il rapporto di caregiving.
La questione lessicale (importante perché ne va della comprensione del proprio ruolo pubblicamente) si accompagna a una confusione anche nel significato delle figure stesse. Non è raro, ad esempio, che in testi ufficiali e in documenti si incontrino equiparazioni tra caregiving e badantato. Chiunque viva all’interno di una situazione concreta di assistenza familiare ha invece perfettamente presente quale radicale differenza di fondo esista tra queste due realtà complementari ma diversissime. Per giunta non è possibile utilizzare nemmeno altre traduzioni in modo soddisfacente, dal momento che quelle più vicine hanno tutte un significato specifico diverso (assistente, curatore, curante, adiuvante ecc.).
Risulta perciò necessario ricorrere a una intera frase esplicativa, come si è fatto anche in testi di legge: «La persona che volontariamente, in modo gratuito e responsabile, si prende cura di una persona non autosufficiente o comunque in condizioni di necessario ausilio di lunga durata, non in grado di prendersi cura di sé». Cosa che può funzionare in sede di definizione, ma è impraticabile come uso corrente e quotidiano.
In conclusione, non solo la parola caregiver è stata ormai sdoganata e viene utilizzata normalmente, ma tutto sommato sembra essere a tutt’oggi la soluzione migliore. Senza dimenticare, da cattolici, che quando don Milani a Barbiana volle esprimere in uno slogan il suo programma educativo, non scelse «a me importa», «me ne curo», «mi faccio carico». Scrisse «I care», e fece bingo.
Lorenzo CUFFINI su «La Voce E il Tempo» del 28 novembre 2021