Come insegnare la Shoah? Con questa domanda si apre la prefazione al mio libro «Un nome che non è il mio» (Sperling & Kupfer). A scriverla è stato Amedeo Spagnoletto, direttore del Museo nazionale dell’ebraismo italiano e della Shoah. È ovvio che, come continua lui, non si possa prescindere dalle fonti e dalla documentazione che debbono restare alla base anche di un racconto di finzione come questo. La coerenza storica è imprescindibile, anche una sola menzogna renderebbe menzogna tutto il resto. È per questo che ho studiato e approfondito il tema della Shoah e dell’occupazione nazista del ghetto di Varsavia per quasi due anni: per non commettere nemmeno un errore di ‘non veridicità’.
Tutto quello che ho raccontato nel mio romanzo è successo praticamente a ognuno dei quasi tremila bambini salvati dal ghetto da Irena Sendler, l’eroina polacca nota anche come «la Schindler di Varsavia ». È per questo che posso dire che il protagonista del mio libro, salvato proprio da Irena, e tutti i personaggi che prendono vita lungo il racconto, sono solo «accidentalmente immaginari». Perché, attraverso le letture che ho fatto, mi hanno concesso l’onore di ascoltare la loro vita, farmi memoria delle loro vicissitudini, diventando simbolo di tutti gli altri. Quegli altri che quelle vicissitudini le hanno vissute davvero, sulla propria pelle. È grazie ai loro racconti, ai loro diari, alle loro testimonianze se le mie pagine hanno preso vita nella maniera più «verosimile» possibile.
Il mio Janusz e la sua famiglia mi hanno permesso di tirare fuori dai gelidi numeri dell’Olocausto le speranze, le paure e i sentimenti di un intero popolo rinchiuso in pochi chilometri quadrati, costretto a subire le violenze più disumane senza mai perdere né la dignità, né la speranza. Ho sentito questo come un compito imprescindibile per me come scrittore ma, soprattutto, come essere umano.
Sono convinto che non si debba lasciare l’onere della memoria alle sole persone di religione ebraica. Tocca anche noi, che ebrei non siamo, farci memoria viva di quelle vicende, soprattutto oggi che i protagonisti diretti vanno via via scomparendo. E rigurgiti antisemiti riaffiorano in tutto il mondo.
Ecco perché lo spunto per l’intera vicenda viene da un fatto che riguarda il presente: un ragazzo che verga una svastica sul muro della scuola. Sarà proprio questo evento a dare il via a tutta la storia: il ragazzo non sa che suo nonno è stato un bambino ebreo nel ghetto di Varsavia. Ma quella svastica sul muro costringerà l’anziano a raccontare, per la prima volta in vita sua, il passato che ha taciuto fino a quel momento. Un passato che riguarda non solo il popolo ebraico ma anche le centinaia di cattolici polacchi, soprattutto suore e sacerdoti, che hanno rischiato ogni giorno la propria vita per aiutare e mettere in salvo dei completi sconosciuti. È bastato restare umani per distruggere quello che umano non era.
Nicola BRUNIALTI da «La Voce E il Tempo» del 30 gennaio 2022