«Le diocesi», recitava l’agile ma pregno documento conclusivo dell’assemblea, «erano invitate a mettersi in ascolto dei segni dei tempi per intraprendere un cammino preparatorio che partisse dalle realtà comunitarie locali per avviare un percorso di discernimento in vista dell’inaugurazione di un itinerario sinodale di riflessione per fare rotta verso quel rinnovamento ecclesiale suscitato dal momento di prova e di grazia della pandemia».
Non è un resoconto de «L’Osservatore Romano» su un comunicato dei vescovi; è un falso, del tutto verosimile, che prende a prestito la prosa inconfondibile con cui vengono redatti i documenti ufficiali della Chiesa, e pure gli articoli della stampa specializzata che li diffonde. È tratto da «Ricordati di sanificare le feste – Fantacronache di rinnovamento pastorale post pandemia» di Fabio Colagrande, giornalista e umorista cattolico: una satira sui molti tic comunicativi – e non solo – della Chiesa e di quello che le gira intorno.
Non si tratta solo di tecnica espressiva: basata su periodi lunghi, complessi, una punteggiatura rara, una sintassi articolata, a scatole cinesi, in un fiorire straordinario di subordinate. È anche questione di lessico: con una sovrabbondanza di termini da addetti ai lavori e di scarso utilizzo quotidiano. Le due cose, combinate insieme, sembrano fatte apposta per rendere poco attrattivi gli argomenti trattati e spingerli nell’alto delle disquisizioni accademiche, anche quando dovrebbero riguardare temi di ordinaria e comune esperienza.
Una certa terminologia nostra è completamente estranea al vocabolario corrente: a partire dal semplicissimo vocabolo «pastorale», che non poche persone ignorano o non comprendono. Ricordo lo sguardo sconcertato del pubblico, quando, ad un incontro di famiglie di persone con problemi di autosufficienza, si comunicò che si sarebbe parlato di «pastorale della disabilità». Espressione che raccoglie cose fondamentali e importantissime, ma che detta così, a persone sommerse dalla concretezza estrema e multiforme della vita di tutti i giorni, rischia di trasmettere pochino.
La comunicazione cattolica da un lato resta vittima di un suo vecchio vizio consolidato: essere rivolta (usiamo il latino, che ne dà l’inconfondibile aroma) più ad intra che ad extra. Questo confligge con una Chiesa che si vorrebbe tutta in uscita, dialogante e missionaria, e rischia invece di essere azzoppata sul nascere, se non è in grado di farsi comprendere in modo efficace. Dall’altro sembra incredibilmente impermeabile alla lezione, pure pervasiva e onnipresente, del linguaggio tutto sintetico e semplificato che corre sui social, in Rete, nella pubblicità. Certi versetti evangelici sembrano tweet ante litteram: è nei successivi duemila anni che dobbiamo esserci persi qualche cosa.
Lorenzo CUFFINI da «La Voce E il Tempo» del 27 febbraio 2022