Era un lunedì pomeriggio quando dal Televideo (non alzate il sopracciglio, a quel tempo era uno dei modi più spicci per avere notizie aggiornate) appresi la notizia. Un’amica mi raggiunse in Seminario con una torta per festeggiare il mio compleanno e la gelai: «È morto De André». Io, che mi lamentavo che in quel giorno non era nato nessuno di famoso, adesso sapevo che avrebbero ricordato quella data per la morte del cantautore.
Sono passati venticinque anni da quell’11 gennaio 1999 e di cose ne sono cambiate parecchie, nella musica e nel mondo. La generazione dei cantautori si è quasi estinta, qualcuno è in Cielo e qualcuno si è ritirato. Chi continua il mestiere fa fatica a non ripetersi e a trovare stimoli in un ambiente che la musica digitale ha rivoluzionato. Ora, se c’è una cosa che ti colpisce della carriera trentennale di De André è stata invece la capacità di rinnovarsi e di non lasciarsi ingabbiare negli stereotipi. Le prime canzoni erano piuttosto compassate, segnate dalla sua voce chiara e dagli arpeggi di chitarra. Poi arrivarono le sperimentazioni degli anni Settanta, il progressive, la moda del concept album con un filo rosso che collegava tutte le tracce dell’LP. E poi fu il momento della riscoperta etnica, dei testi in dialetto, degli strumenti tipici del bacino mediterraneo.
Si potrebbe dire che dentro Fabrizio De André ci siano molti artisti e sarebbe una sacrosanta verità, considerando il peso che ebbero nella sua produzione i diversi autori da cui saccheggiò testi e musiche per rivisitarli a modo suo (Brassens più di altri, ma anche Dylan e Cohen). Ma lo sarebbe ancor più scorrendo l’elenco dei collaboratori nelle fasi della sua vita artistica: da Gian Piero Reverberi a Giuseppe Bentivoglio, da Mauro Pagani a Massimo Bubola, da Francesco De Gregori a Ivano Fossati.
Cercando di fare un bilancio della sua carriera, in tanti si sono chiesti che cosa lo abbia reso così particolare nel nostro panorama musicale. Non aveva la genialità di alcuni suoi colleghi e neppure rappresentava una figura carismatica o un’icona a cui si voleva assomigliare. Il successo di De André rimane tuttora un mistero, perché molti dei suoi riferimenti dotti sono lontanissimi dai gusti del grande pubblico, che tuttavia non ha mai smesso di apprezzarlo e di ascoltarlo. Mi domando quanti siano in grado di riconoscere nell’album «Le nuvole» il rimando all’omonima commedia di Aristofane, di cui ammirava la sferzante vena satirica. Ma il bello della musica pop è proprio questo, che si presta a diversi livelli di ascolto. E De André è stato capace di mettere d’accordo i militanti delle cause perse che si identificavano nell’indiano di «Fiume Sand Creek» e i romantici stregati dalla rima iniziale di «Marinella»: «Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò nel fiume a primavera». I goliardi che intonavano «Re Carlo» e i ragazzi dell’oratorio che inserivano l’«Ave Maria» nel repertorio liturgico.
Col tempo è spuntata quella fastidiosa corsa ad accaparrarsi l’artista per farne una figura impegnata e un cantautore spirituale. Di queste André non si curava, lui che neppure voleva sentirsi chiamare «poeta» e che in un’intervista osservò che fino a diciott’anni tutti scrivono poesie, ma dopo lo fanno solo più i poeti e gli idioti, perciò preferiva in via precauzionale definirsi solo «cantautore»… Alla larga, quindi, da quelle interpretazioni che ne fanno un cristiano anonimo o un credente sui generis. Pur non definendosi mai un ateo, si assestava su posizioni agnostiche e critiche verso l’autorità religiosa. Una volta ebbe a dire: «Avevo urgenza di salvare il cristianesimo dal cattolicesimo», ma era una critica rivolta al potere, di cui considerava le gerarchie un avamposto in campo religioso.
Con questo, non riesco a fare a meno di convincermi che un Papa come Francesco gli sarebbe piaciuto. Per uno che cantava la storia di Princesa, transessuale brasiliana che si prostituiva nei viali milanesi, sarebbe stata una bella sorpresa un Pontefice che ogni settimana incontra gruppetti di trans durante l’udienza del mercoledì. Si sarebbero trovati d’accordo in quel desiderio di capire l’essere umano nella sua complessità, nel voler leggere la storia da punti di vista diversi da quelli consueti.
Perché poi il rapporto di De André con la religione fu per molti aspetti controverso, e non mi riferisco tanto alla censura della radio di Stato che si abbatté sulla presunta blasfemia della canzone «Si chiamava Gesù», sulla quale Radio Vaticana ebbe una posizione più aperta, come avvenne anche nei confronti di «Dio è morto» di Guccini. La tappa più spinosa di questo rapporto fu l’album «La Buona Novella», in cui Fabrizio riscrisse la nascita e la passione di Gesù fondandosi essenzialmente sui Vangeli apocrifi. Erano gli anni in cui in Italia usciva la traduzione di Marcello Craveri per Einaudi e questi testi sembravano una lettura alternativa del profeta di Nazaret rispetto alla versione ufficiale della Chiesa.
Il Gesù di De André non era quello del catechismo, ma il più grande rivoluzionario della storia e questo suscitava reazioni differenti tra i cattolici. I benpensanti ne furono irritati perché si metteva in discussione il monopolio della Chiesa sulla figura di Gesù, mentre gli ingenui cadevano nella trappola del riduzionismo accettando l’immagine campione di umanità vittima della religione. Quando al termine de «Il testamento di Tito» il buon ladrone si consegna alla possibilità in un amore estremo («nella pietà che non cede al rancore, Madre, ho imparato l’amore») siamo ai vertici dell’amore umano, ma come credente mi conservo il diritto di considerare quell’uomo il Figlio di Dio.
Quel tratto di strada ci accomuna, poi qualcuno si ferma e qualcuno procede. Invece di lagnarci perché qualcuno afferma solo un pezzo di verità, dovremmo dirgli grazie e dedicarci a quella parte che ancora manca. Questo è il compito dei credenti, non dei cantautori, ai quali troppo spesso si sono delegati dei mandati che non sono di loro pertinenza. Il suo ruolo, De André, pensava di averlo svolto con efficacia, poiché ebbe a dire con una vena neppure tanto nascosta di autocompiacimento che dopo «La Buona Novella» non avrebbe più dovuto far uscire altri dischi perché non aveva altro da dire. Una esagerazione, come dimostrano i fatti successivi. Però in molti affermano che quello fu l’apice della sua carriera.
Vorrei risparmiarvi gli stucchevoli commenti su chi abbia raccolto l’eredità di De André, un discorso abbastanza insensato, considerando il ruolo differente della musica nel contesto contemporaneo. Quanto ai tributi che gli hanno riservato i colleghi in questi anni, si ha l’impressione che gli artisti abbiano voluto celebrare se stessi più che Fabrizio. Nonostante alcune lodevoli eccezioni (mi va di ricordare la versione de «Il bombarolo» interpretata da Samuele Bersani e accompagnata al piano da Stefano Bollani), siamo spesso lontani dalla forza degli originali.
Mi pare più interessante chiedersi invece quale sia stato il suo contributo alla nostra storia musicale e culturale. Credo che la mossa vincente sia stata affrontare questioni delicate da punti di vista inusuali. Se si scorrono i testi delle sue canzoni si scopre una ricchezza di temi sensibili, trattati però non con i toni della denuncia ma con la vita scalcinata dei personaggi. Pasquale Cafiero è il brigadiere di Poggio Reale che tiene una scarpa nella legalità e una nel rispetto di un boss («Don Raffaè»), Andrea è il disperato amante di un soldato morto in battaglia e prossimo al suicidio («Andrea»), e poi l’anonimo e illuso innamorato della prostituta che cerca di toglierla dal mestiere («Via del campo») o il suonatore Jones alcolizzato che domanda al mercante di liquori cosa può comprarsi di migliore («Dormono sulla collina»).
La galleria di figure malfamate rimane insuperabile e per me rappresenta la vera musa dell’arte di De André. Per loro vale l’epitaffio che conclude la memorabile «Città vecchia»: «Se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo».
Gian Luca CARREGA, responsabile della Pastorale della Cultura, su «La Voce E il Tempo» del 14 gennaio 2024