«La storia siamo noi, siamo noi queste onde nel mare,
questo rumore che rompe il silenzio, questo silenzio così duro da masticare».
Non c’è niente che sia più ipnotico del guardare le onde di una mareggiata. Ci si potrebbe stare ore. Un susseguirsi incessante: sempre uguali, e tutte diverse, le une dalle altre. Un rumore che è un succedersi di suoni ininterrotti. Fruscianti, tonanti, schiumanti, rotolanti, scroscianti, pietrosi, rabbiosi e risucchiati. Con il vento che ti bagna la pelle e ti spruzza la salsedine negli occhi e sulle labbra. Il rumore è talmente forte e coinvolgente da fare silenzio di tutto quanto c’è d’altro intorno. Uno spettacolo talmente intenso da annullare ogni altra immagine ti possa circondare.
Le onde della mareggiata. Ti fanno sentire Ulisse e Polifemo, naufrago ed esploratore. Ti riportano ragazzo e amico, «Mercoledì da leoni» e «Sapore di sale», tempeste inferocite e Salvatori che camminano sulle acque. Meraviglie della natura e natura leopardiana: arcigna, nemica, ostile. Parte del tutto e niente di niente. «Ovunque il guardo giro, immenso Dio ti vedo»… Sì, certo, può essere. Ma può essere anche «dura nutrice, madre di parto e di voler matrigna».
Mumble, mumble, mumble. Pensare è cosa nobile. Riflettere, nobilissima. Tuttavia, in questo immergersi totale, in questa sorta di contemplazione estatica e romantica (nel senso dello sturm und drang, non dei fotoromanzi) non c’è nascosto il rischio dell’abbandono passivo al nulla, del “bamblinare” su me stesso, e basta? Certo che il rischio c’è.
Urge un antidoto. Posso averlo a poco, se lo desidero davvero. Mi basta spostare l’occhio verso l’orizzonte. Provare a capire che quello che per me, adesso, è riposo, vacanza, magari meditazione e persino filosofia, per qualcun altro, oltre questo stesso mare, oltre queste medesime onde, è vita o morte. Speranza o disperazione. Via di fuga, scommessa. Terrore: o la va o la spacca. Odissea, ma senza epica e senza gloria. Scelta definitiva. Comunque perdite, abbandoni. Certamente strazio. L’acqua è la stessa, stesso il mare: a me può “sembrare” tante cose. Per moltissimi altri, “essere” tutta un’altra storia. Diventare Storia.
Suona retorico? Banalmente scontato? Ben vengano entrambe, se è così: la retorica e la banalità. Se sono necessarie a risvegliarmi mente e cuore dal torpore imbambolato che mi spinge vero il mio ombelico. Dice: cosa vai a pensare? Puoi fare qualcosa, tu, per cambiare questo genere di cose? Ci vuole ben altro che un po’ di compassione a buon mercato e di facili buoni sentimenti per problemi come questi. Che sono epocali. Universali. Che passano sulle nostre teste.
Occhio. Questo è solo un modo per convincermi a restare chiuso dentro casa quando viene la sera. La storia non si ferma davanti a un portone, la storia entra dentro le stanze, le brucia, la storia dà torto e dà ragione. «La storia siamo noi». La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso. «Signore, quando mai ti abbiamo visto affamato o assetato o forestiero o nudo o malato o in carcere e non ti abbiamo assistito? Egli risponderà: In verità vi dico: ogni volta che non avete fatto queste cose a uno di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me».
Se vogliamo dirla, anzi, cantarla in un altro modo: anche se noi ci crediamo assolti, siamo per sempre coinvolti. «La storia, siamo noi».
Lorenzo Cuffini – collaboratore della Pastorale della Cultura
«La storia siamo noi» di Francesco de Gregori: https://www.youtube.com/watch?v=Hjz_i-e6vB4