Nel 1967 la canzone «Dio è morto» non venne trasmessa dalla Radio di Stato perché considerata blasfema, viceversa la Radio Vaticana, su indicazione di papa Paolo VI, la trasmetteva perché la riteneva profondamente ricca di spunti spirituali. In questa vicenda io credo siano racchiuse le ragioni profonde del successo che Francesco Guccini, cantautore agnostico e provocatorio, ha sempre avuto in una parte significativa del mondo cattolico.
In «Dio è morto», Guccini non afferma né la morte di Dio né la sua esistenza, indica semplicemente che solo in un serio e coraggioso impegno per la giustizia si aprono speranze per un mondo meno violento e alienante e più giusto e solidale. Nelle sue canzoni si trovano tante storie, tanti temi, tanti interrogativi alla ricerca della chiave segreta della vita perennemente insidiata dall’inesorabile scorrere del tempo. Dove termina questo affascinante e inquietante viaggio? Cosa resta della vita luminosa e tragica al tempo stesso?
Guccini ritiene impossibile trovare risposte definitive agli interrogativi di senso che la vita suscita, tuttavia è convinto che non si debba smettere mai di interrogarsi. L’intera sua produzione poetica è uno splendido e continuo esercizio, volto a suscitare domande, per non perdere la speranza di poter trovare qualche risposta e comunque per non rassegnarsi a una sopravvivenza superficiale priva di tensione morale verso la ricerca della giustizia e del rispetto per gli altri soprattutto i più deboli.
La forza degli interrogativi posti dalle sue canzoni nasce dalla sua straordinaria capacità di osservazione e di lettura delle vicende della vita. Le profonde emozioni che sempre sa suscitare quando descrive le persone, gli incontri, gli amori, le amicizie, la natura, le inquietudini personali, le tensioni sociali, le piccole e grandi ipocrisie che accompagnano la vita di molti, non si esauriscono mai in sé stesse ma sempre lasciano nella mente e nel cuore inquietudini e domande. Guccini riesce a suscitare profondi interrogativi esistenziali anche grazie ad un uso raffinatissimo della parola, dove linguaggio popolare e linguaggio colto convivono con naturalezza.
Quando poi s’interroga in modo esplicito dove termini il viaggio della vita, il suo agnosticismo si avvicina all’ateismo: il viaggio termina nell’ultima thule, regno di ghiaccio eterno e senza vita, dove si spegnerà per sempre ogni passione. Tuttavia in tutta la sua produzione si percepisce anche una sottile nostalgia e una tenue speranza che il viaggio possa terminare nell’isola, tinta d’azzurro bella più di tutte, dove non soffriremo e tutto sarà giusto.
Quanti tra i cristiani apprezzano le sue canzoni non rinunciano certo alla certezza della risurrezione di Cristo e della vita eterna, centro della nostra fede, ma sanno anche quanto complesso e incerto sia il cammino della fede, quanto importante sia interrogarsi in profondità sulle varie vicende della vita senza accontentarsi di risposte facili e superficiali, quanto sia indispensabile che il cristianesimo s’impegni costantemente per un mondo più giusto, fraterno e solidale.
Lasciandoci provocare e interpellare dalle tante domande di questo grande cantautore, gliene rimandiamo almeno un paio: «Caro Francesco, dobbiamo proprio rassegnarci al fatto che i tanti ‘bambini’ nel vento non possano ritrovare il sorriso? Dobbiamo rassegnarci alla sconfitta definitiva del bene sul male? Dobbiamo rassegnarci al nulla eterno e al fatto che della nostra vita e del nostro mondo non rimanga proprio niente?». Io penso che in cuor suo direbbe: «Penso di sì, ma spero di no! Forse…».
Marco ANDINA su «La Voce E il Tempo» dell’11 settembre 2022