Sta per inaugurare la XXXIV edizione del Salone del libro del Torino e il sottoscritto ha avuto la fortuna di avervi partecipato fin dalla prima, in diversi ruoli: sono stato volontario – ci chiamavano felpini, accompagnavamo gli autori nei negozi della città, ebbi l’opportunità di farmi raccontare da Natalia Ginzburg come avesse tradotto il primo volume della «Recherche» di Proust – poi espositore in quanto editore, poi direttore del Salone stesso (dal 1993 al 1997), poi direttore della comunicazione dell’Associazione italiana editori, poi più volte presente con stand di stampo istituzionale.
Insomma, alla domanda se il Salone faccia davvero leggere di più – e con il Salone le decine di imitazioni fieristiche e non che sono susseguite, dando vita ad esperienze eccezionali come il Festival della letteratura di Mantova, Pordenone Legge, Più libri più liberi – non posso che rispondere con un sonoro «sì»! Credo anche che la domanda, tre decenni dopo la grande intuizione di Guido Accornero e Angelo Pezzana, fondatori del Salone, non sia più così rilevante. La questione nuova e più vera, a mio modesto parere, è in una domanda antica, che sorge da una straordinaria frase di La Rochefocauld, che nella prima metà del XVII secolo scriveva: «Non si tratta di far leggere, ma di far pensare».
Ecco, a me pare che tutte queste manifestazioni certamente aiutino a fare vendere più libri soprattutto a decine di piccoli editori che non hanno possibilità di accesso in libreria e che hanno già avuto qualche vantaggio dall’arrivo di Amazon – forse qualcuno lo riterrà paradossale, ma è così! Tuttavia non è questa vendita che è peculiare di questi eventi; peculiare è costringerci a prenderci il tempo giusto per le cose, un tempo per ascoltare, confrontarci, approfondire.
A cent’anni dalla pubblicazione di quattro dei libri più importanti della storia della letteratura (l’«Ulysses» di Joyce, «The Waste Land» di T.S Eliot, «Siddharta» di Hesse, e gli ultimi volumi della «Recherche» di Proust), il nostro rapporto con la realtà è molto cambiato, e molto simile a quello che i quattro romanzi preannunciavano. Le nostre personalità sono sempre più frammentate, sempre meno facenti parti di una comunità, sempre meno associate se non in piccoli o piccolissimi gruppi; si ritrovano in questi eventi per sentirsi parte di una collettività, per sentirsi rappresentati in un loro piacere spesso continuativo, talvolta saltuario come quello della lettura, che si appaia ad un gusto diffuso che lo stesso Accornero denominò «libridine », il piacere ben noto ad Elias Canetti e al protagonista del suo capolavoro, «Mr. Kien», quello legato al possesso stesso dell’oggetto libro.
Si aggiunge oggi il piacere dell’ascolto, con la diffusione sempre più ampia dell’audiolibro e della sua evoluzione in podcast. Certo, tutto ciò può e deve diventare un guardarsi dentro, un evolvere da comunità a responsabilità individuale e ritorno; camminare insieme non elimina, anzi, la possibilità di trovare poi una stanza tutta per sé. Quello che nel 1928 in due conferenze pubbliche rivendicava per le donne Virginia Woolf, vale oggi per tutti: dobbiamo trovare uno spazio nostro nella cultura contemporanea. I libri ci aiutano, e i luoghi di incontro che li promuovono sono come un grande fiume in cui siamo isole nella corrente. Che il grande Ernst Hemingway ci protegga.
Paolo VERRI su «La Voce E il Tempo» del 19 maggio 2022