Ci trovi la domenica fra i banchi, nel coro, con la chitarra in mano o il cestino delle offerte. Ci trovi in oratorio, ad accogliere i gruppi, a pulire le aule, a insegnare catechismo, accompagnare i giovani al matrimonio e i genitori al battesimo. Siamo ovunque, siamo la maggioranza dei visi che incontri entrando nel perimetro di una parrocchia, ma non siamo mai sull’altare e troppe volte neppure in ruoli che prevedano autonomia decisionale.
Non ci piace fare polemica e accettiamo che il viceparroco ordinato da 5 mesi ci spieghi come si fa il catechismo che insegniamo da 15 anni. Sorridiamo se, quando offriamo disponibilità a collaborare al parroco, lui non si preoccupa di chiederci cosa sappiamo e vogliamo fare, incurante del fatto che far fruttare i nostri talenti dovrebbe per un pastore essere importante almeno quanto rispondere ai bisogni più immediati della comunità. È sempre andata così, siamo abituate a mandar avanti le cose senza farci troppe domande, a creare un piccolo spazio nel quale sentirci un po’ indispensabili, piccole api regine di piccolissimi alveari che altri hanno creato per noi.
Poi però succede qualcosa di strano, un’altra donna prova a impuntarsi che no!, lei non vuole fare la catechista o il doposcuola, ma creare qualcosa di nuovo. Il parroco è spiazzato (o adirato), sa di non poter tenere sotto controllo la cosa perché quella donna rivendica uno spazio autonomo all’interno della parrocchia e lo fa con autorevolezza. Il cigolio di un vetro che s’incrina si sente da distante.
E noi che da anni obbediamo sorridendo proviamo un fastidio profondo: fastidio per lei che viene a rompere gli equilibri che ci sono costati anni di piccole umiliazioni subite in silenzio, ma anche dolore per la consapevolezza che il rapporto così costruttivo e profondo con il prete nel momento in cui si lavora sui suoi progetti, diventa freddo o addirittura finisce, quando si tratta di proporne di propri.
Non è facile guardare in faccia a queste dinamiche, occorre mettere a tema questioni enormi dai risvolti praticissimi come: esercizio maschile dell’autorità, misoginia, infantilizzazione delle donne. Soprattutto richiede il passaggio difficilissimo di smettere di considerare la parrocchia come proprietà (benché transitoria) del prete e ricordare che se fuori siamo professioniste, madri, in una parola adulte, lo restiamo anche dentro e che quindi non solo possiamo, ma dobbiamo porci alla pari con il parroco, in un’ottica di vera corresponsabilità e creativa autonomia.
L’apertura dei ministeri istituiti può essere uno strumento, ma la vera strada è la nostra consapevolezza, insieme a una formazione del clero che insegni a collaborare davvero (che non significa attribuire incarichi) e a non temere di confrontarsi alla pari con i laici in generale e con le donne in particolare. Iniziamo a parlarne, creiamo occasioni allargate di scambio, senza paura, perché anche se alcuni spigoli fanno male, l’alternativa è perdere per la strada proprio le donne più preparate e disponibili all’impegno, ma più ancora perpetuare un’ingiustizia profonda.
Paola LAZZARINI da «La Voce E il Tempo» del 30 maggio 2021