Quando scriviamo e ancor più quando parliamo i contenuti non sono tutto, ma conta anche la forma. Esplicitare sempre in forma diretta il nostro pensiero potrebbe non essere conveniente, perciò le metafore ci vengono incontro per arricchire il nostro linguaggio. Nella percezione comune sono percepite come un lusso, una semplice alternativa elegante per esprimere indirettamente ciò che potrebbe essere detto in forma chiara con la stessa efficacia. Ma su questo il filosofo Paul Ricoeur ci ha avvertiti della unicità del fenomeno della metafora, che chiama ad esistere qualcosa che prima non c’era, dunque non si tratta di un semplice sostitutivo. Nel momento in cui conio una metafora sto generando un senso e creando delle connessioni.
Alla luce di questa riflessione dovremmo avere una maggiore considerazione per le metafore, che come gli esseri viventi hanno un loro ciclo di crescita: nascono, si sviluppano, decadono e poi muoiono. Sottovalutare questo aspetto ci porta ad usarle anche quando ormai hanno esaurito la loro funzione. Una mia conoscente si riferisce spesso al suo nucleo domestico dicendo: «Non siamo la famiglia del Mulino bianco», rivelando che ha vissuto i suoi anni migliori quando in tv passava lo spot di quella famiglia ideale che ora, per fortuna, non ci tormenta più. Forse ai nostalgici degli anni 80 dice ancora qualcosa, ma dubito che abbia un significato dai millennials in avanti.
Del resto molti colleghi predicatori evocano sovente la famigerata acqua di rose che si trova ancora su qualche scaffale di supermercato ma non rientra certo nella spesa settimanale della maggior parte delle persone. Siamo pigri e quindi continuiamo a usare un’immagine anche quando andrebbe inevitabilmente aggiornata. Possibile che non ci venga in mente nessun rimedio blando ai nostri giorni? Il Pnrr? Lo staff medico di Pogba? Lo shampoo antiforfora (almeno nel mio caso)?
Va detto che alcune metafore invecchiano presto mentre altre sono più longeve. Un esempio significativo mi sembra il campo dei soprannomi in ambito sportivo. Mi hanno sempre infastidito quei nomignoli che i corridori si sono trovati da soli e che hanno imposto ai giornalisti per essere subito riconoscibili. Perciò se il Falco, alias Paolo Savoldelli, è sparito in fretta dai nostri radar, è la giusta nemesi per una metafora tanto intuitiva quanto banale. Dura tre o quattro stagioni, più o meno come la sua carriera. Viceversa è rimasto appiccicato nei nostri cuori il soprannome di Abatino per Gianni Rivera, anche per quelli troppo giovani per ricordarselo in azione. Merito della immensa classe della mezzala milanista, certo. Ma merito soprattutto di quel geniaccio di Gianni Brera, che glielo aveva appioppato. Oggi lo avrebbero querelato, temo. Perché le metafore vivono e prosperano negli ambienti liberi e sereni, caratteristiche rare nello sport in generale e nel calcio in particolare.
Gian Luca CARREGA su «La Voce E il Tempo» del 7 maggio 2023