C’è poco da fare: di solito, la storia è un processo pieno zeppo di divisioni. Che al limite, in qualche caso, e molti anni dopo essersi svolta, può giungere a trovare parziale ricomposizione nella memoria di coloro che l’hanno vissuta, o d’un Paese. Nel caso del nostro la questione è molto evidente. Basti pensare all’incapacità pubblica d’avere una visione condivisa della storia unitaria, riguardi il processo risorgimentale, o – tema per eccellenza – il periodo fascista, per non parlare degli anni del terrorismo o peggio di quelli di Mani Pulite.
Solitamente, il dibattito su questi temi è infarcito di stereotipi e luoghi comuni quali «la storia la fanno i vincitori», oppure «bisogna fare storia in modo imparziale». A questo riguardo, chi s’occupa di storia ha già molti problemi da affrontare nel proprio lavoro: l’assenza delle fonti, o la loro parzialità – non ne esistono mai di neutre, tutte sono frutto di punti di vista – o peggio ancora le menzogne di cui sono costellati gli eventi umani.
E poi ne ha uno aggiuntivo, legato alla sua stessa figura. Ovvero: lo storico è un problema? Uno storico può essere obiettivo nel suo tentativo di ricostruzione della storia? La risposta è semplice: no, non può. Non può raccontare ‘la’ storia – che una volta accaduta, è accaduta – può solo raccontare ‘una’ storia, sperando che sia davvero ‘la’ storia. Sperando di arrivare il più vicino possibile a quella che potrebbe essere la «verità».
D’altronde, basta pensarci: anche gli storici di professione hanno il proprio punto di vista e le proprie idee politiche. I propri stereotipi culturali. O magari vivono essi stessi immersi nella cultura o sono figli degli eventi che si propongono di esaminare. Oppure, ancora – dall’antichità a oggi, il mondo è pieno di storici di corte – sono a libro paga di qualcuno, o mettono la propria capacità a servizio d’un qualche potere. Fare storia è dunque anche saper esaminare attentamente chi la fa.
E dunque? Stanti così le cose, in scia a Ponzio Pilato ci si deve rassegnare alla non conoscibilità della verità (storica)? Non è neppure vero questo. In tal senso, aveva ragione un grande intellettuale come Gaetano Salvemini quando affermava che lo storico non può essere «imparziale», ma può e anzi deve essere «intellettualmente onesto». Il resto viene di conseguenza. Forse non gli sarebbe piaciuto, ma alle sue parole possono essere affiancate quelle di papa Leone XIII: «Nella mente di chi scrive sia ben presente in ogni momento che la prima regola della storia è non osare affermare nulla di falso, né tacere qualcosa di vero». Affermazione doppiamente vera se si pensa che, di solito, chi storicamente tace qualcosa di vero lo fa per affermare qualcosa di falso.
Se poi tutto ciò possa essere argomento di dialogo politico, o riesca a entrare in programmi scolastici in lotta con un ciclo di studi del tutto sballato e con le poche ore a disposizione – per citare Fabrizio De André – «sarebbe cosa alquanto strana e più che altro non sperata».
Alberto GUASCO Storico, CNR-Isem Milano (su «La Voce E il Tempo» del 23 ottobre 2022)