Sono un boomer, dunque non ho mai vissuto la guerra. Sono cresciuto con qualche racconto in famiglia, piccola epopea nei discorsi di genitori, nonni e loro coetanei. Appena accennata, però: se si considera la lunghezza e l’impatto di quei lunghi anni, si capisce come in realtà loro ne parlassero assai poco. Non so se per volontà di non turbarci, per consapevolezza di non poter essere compresi, o per desiderio di dimenticare rapidamente. Probabilmente, un mix delle tre motivazioni.
«La guerra», in compenso, ha permeato la cultura in cui mi sono formato: in particolare la letteratura e il cinema, che hanno poi tratto nuova linfa dal Vietnam in poi. E, in parallelo, lo ha fatto anche «la pace»: dagli anni Sessanta “peace and love” è diventato il mantra e il marchio di un’epoca e un filone culturale sostanzioso, prima ancora che ideologico o politico. Ma, alla resa dei conti con la cronaca, ha mostrato tutti i limiti e le inconsistenze dello slogan. Questo non ne sminuisce l’importanza, ma focalizza quanto sia difficile, in concreto, passare dalle parole ai fatti. Dal pacifismo alla pace, in ultima analisi.
La cultura è luogo privilegiato di incontro e dialogo: lì dovrebbe essere più semplice abbattere muri e tenere porte aperte. Eppure sta evidenziando tutta la sua difficoltà. Nella nuova edizione di «Jesus Christ Superstar», al Sistina di Roma in questi giorni e poi in giro per l’Italia, si è scelta una nuova messa in scena di «Could we start again, please?». È il brano cantato da Pietro e Maddalena dopo la cattura di Gesù per esprimere, davanti alla tragedia incombente, la disperata volontà di riportare indietro le lancette della storia. In questo caso a cantarlo sono due Maddalene diverse, una con la bandiera della Ucraina e una con quella russa. Idea azzeccata, parole evocative, messaggio efficace e suggestivo. Questo per il pubblico nostrano, comodamente seduto in teatro. Mi domando che reazioni potrebbe suscitare, al contrario, una scelta di questo tipo in Ucraina.
Non per niente, trasposta in campo culturale religioso, l’iniziativa durante la via Crucis al Colosseo, di far portare la Croce da una donna russa e un’ucraina insieme, ha destato a Kiev e in tutto il Paese aggredito, comprese le gerarchie cattoliche, contrarietà e disappunto. Le parole e le idee, strumento principe della cultura, faticano a incarnarsi nel la realtà sanguinante della guerra viva. Anche quando si tratta della Parola per eccellenza, almeno per noi: quella del Vangelo.
Provvidenziale l’intento del Papa, che continua ostinatamente a indicare, con la forza e l’inattualità apparente dei profeti, la meta della pace come unica e imprescindibile per l’umanità. Provvidenziali anche le proteste di tanti ucraini, che ci ricordano come il linguaggio evangelico non sia mai comodo, condivisibile da tutti, buonista. Al contrario: come, alla prova dei fatti, resti duro da comprendere, radicale da accettare, faticoso da mettere in pratica.
Lorenzo CUFFINI su «La Voce E il Tempo» del 24 aprile 2022