«DOI – Denominazione di Origine Inventata» è il podcast di grande successo che Alberto Grandi ha ricavato dal suo libro omonimo del 2020. Grandi insegna Storia dell’alimentazione all’università di Parma e le sue tesi che smentiscono l’antichità del gusto per la cucina degli italiani hanno suscitato pareri discordi. Naturalmente non è in discussione la bontà dei prodotti, ma la narrazione che li accompagna: una questione di marketing, nata per promuovere questi prodotti all’estero assegnando loro una storia che è molto più recente di quanto supponiamo.
Nell’ambito agro-alimentare va di moda un certo dogmatismo che considera un affronto alla Patria ogni modifica a ricette che si presume avere origini secolari, mentre in molti casi risalgono appena al Dopoguerra. Per non parlare poi dell’orgoglio con cui battezziamo come «italiani» molti prodotti che abbiamo ereditato da altre culture e ora rivendichiamo con marchi che ne tutelano la presunta purezza contro le imitazioni che avvengono nel mondo, le quali non fanno altro che replicare ciò che abbiamo fatto noi.
La verità è che i prodotti che arrivano sulle nostre tavole spesso hanno ben poco a che fare con quelli che gustavano i nostri antenati. Grandi ricorda che – paradossalmente – il Parmesan che viene prodotto nel Wisconsin è più fedele al formaggio antico di quanto lo sia quello che compriamo nei nostri supermercati a stagionatura verificata. Probabilmente è la cura che abbiamo messo in questi ultimi anni nella filiera alimentare a farci storcere il naso di fronte a tutto ciò che appare meno controllato e meno presentabile. Un atteggiamento troppo rigido rispetto ai cambiamenti può avere poi esiti disastrosi se non tiene conto del mutare delle circostanze.
Grandi rammenta come la grande epidemia di filossera nell’Ottocento portò al collasso la viticultura europea. L’unica soluzione praticabile fu importare dall’America nuovi vitigni che vennero innestati su quelli locali. Alcuni gridarono allo scandalo e dichiararono che era la fine del vino. Ma se oggi possiamo sorseggiare un’ottima Barbera del 2006 è grazie all’intraprendenza di chi non si fece scrupoli a cercare una soluzione al problema imminente.
È questo il punto su cui mi sembrava interessante riflettere. Le narrazioni sono in grado di condizionare non solo il mercato, ma anche la politica e la religione. Una lettura troppo dogmatica delle tradizioni porta a ritenere antichissimo e inalterabile anche ciò che è relativamente recente e magari frutto di evoluzione. Per questo le narrazioni incontrollate rischiano di produrre un fondamentalismo becero e pericoloso.
Il conflitto ucraino sta sollevando spettri novecenteschi generati da una cultura di regime che voleva ricostruire l’integrità territoriale di popoli che esistevano da appena qualche secolo. Abbiamo il dovere di essere critici verso tutte le operazioni propagandistiche, anche quelle che potrebbero servire i nostri interessi. Negli ultimi anni abbiamo applaudito gli interventi dell’autorità per smascherare le frodi alimentari. Ora tocca a noi essere abbastanza svegli da saper denunciare quelle ideologiche e non lasciarci incantare da narrazioni interessate.
Gian Luca CARREGA da «La Voce E il Tempo» del 20 marzo 2022