Siamo davvero un popolo di evasori? A volere prendere per buone numerose ricerche che circolano in Rete o che, comunque, vengono diffuse dai media sembrerebbe che non lo siamo tutti, non nello stesso modo e non ovunque. Nel 2018 l’evasione italiana pare abbia raggiunto i 109,8 miliardi di euro. Detto in modo più giornalistico, 6 punti di Pil, detto più come piacerebbe alla casalinga di Voghera pare che per ogni 100 euro di tasse che sono entrati nelle casse dell’Erario 15 sono rimasti nelle tasche di chi ha evaso. Il rapporto fra queste cifre, che sono più leggibili del Prodotto interno lordo, comunque, ci mette sul podio europeo dell’evasione.
Si può ragionevolmente pensare che esista un rapporto fra economia del territorio e propensione all’evasione se fra le Regioni italiane che contribuiscono a metterci sul podio ci sono Campania, Calabria e Sicilia. Parlando invece di settori economici non propriamente virtuosi le ricerche indicano: commercio, trasporti, turismo e ristorazione. Molti i governi che hanno quantomeno dichiarato guerra all’evasione. Dai poco amati studi di settore del 1993 in avanti la politica ha tentato di mettere un freno al fenomeno evasivo con risultati a dir poco modesti.
Pagare le tasse resta un dovere civico, ci spiegano alle scuole superiori, presso le facoltà dove si studia economia appare più chiaro il rapporto fra gettito fiscale, ruolo della amministrazione finanziaria e qualità e quantità dei servizi cui il cittadino può ambire. Per dirla sempre più alla casalinga, non sembrerebbe possibile pensare ad un sistema Paese senza un prelievo fiscale. A qualcuno sarà venuto il desiderio di aggiungere un aggettivo al prelievo fiscale: equo. E sul punto non si può non essere d’accordo, perché se la percezione soggettiva di quello che il fisco ci ‘impone’ può andare dal prelievo ragionevole fino alla rapina a mano più o meno disarmata, quando la percentuale di prelievo sul reddito dichiarato si avvicina di molto al 50% la tentazione di mettere da parte il senso civico diventa piuttosto forte.
Vero è che per il noto criterio della progressività delle imposte (mutuato dal dettato costituzionale che suggerisce chi più ha possibilità più è chiamato a dare) se il fisco ci colpisce duramente è probabile che siamo o ricchi o benestanti. Detto ciò i pruriti dell’evasione colpiscono anche chi non detiene grandi fortune, perché con un po’ di pazienza e di metodo un po’ di fortuna la si può mettere da parte evadendo.
I professori di economia qualche anno fa facevano ragionare su un concetto che chiamavano utilità marginale del reddito che resta a disposizione del cittadino. Esempio: il signor Rossi dichiara 100, paga 20 di tasse, campa con 80; il signor Bianchi dichiara 450, paga 200, campa con 250. Si può sensatamente ragionare sul rapporto fra 20 e 100, come fra i 200 e i 450. La politica potrà tirare quei rapporti a favore o a sfavore di questo o quell’elettore.
Al netto di questo lo statista, o più semplicemente l’amministrazione finanziaria che certamente dai venti politici non può sempre stare al riparo, qualche ragionamento sulla possibilità di soddisfare i cosiddetti «bisogni primari» stando nella fascia di reddito netto 80 oppure 200 lo dovrà pur fare. Questo sembrerebbe derivare dalla destinazione privilegiata del prelievo fiscale, che dovrebbe essere la redistribuzione della ricchezza sotto forma di servizi e altre questioni più complesse e infrastrutturali e che, comunque, a pieno titolo dovrebbero rientrare nel sistema Paese.
C’è ancora un aspetto meno noto dell’evasione fiscale che è un derivato del lavoro nero. Sarà capitato a molti di non avere ottenuto lo scontrino dopo un acquisto o la fattura da un professionista. Il lavoro nero porta con sé due tipi di violazioni, entrambi con un nocumento individuale e collettivo. Il lavoratore dipendente che lavorasse senza le garanzie contrattuali si troverà una scopertura contributiva ai fini pensionistici proporzionale al periodo di nero. Detta così sembra la solita cosa noiosa e burocratica e se si hanno un venticinque o una trentina d’anni sembra quasi sconveniente pensarci. Purtroppo il sempre più tardivo ingresso nel mercato del lavoro (regolare) e l’innalzamento dell’età richiesta per maturare il diritto ad un trattamento pensionistico danno a quei due o tre anni lavorati in nero un significato piuttosto rilevante il cui impatto sarà percepito solo a fine carriera lavorativa. E questo è un aspetto non proprio irrilevante già di per sé.
A questo va aggiunto il «delitto fiscale», tutto ciò che non finisce su un listino paga (la vecchia busta paga) è sottratto sia al prelievo contributivo che a quello fiscale. Il marito della casalinga di Voghera talvolta è felice di non avere pagato le tasse perché, in fondo, un introito per arrivare a fine mese lo porta a casa e sono contenti in due. Come dire: meglio in nero che non lavorare del tutto. Non si può certo gettare la croce sulle spalle della casalinga e men che meno del marito. Ma sarà così banale poter dire a entrambi che sarebbe così simpatico se il signore potesse lavorare in regola con contributi e tasse? Ci guadagnerebbe lui, la signora e il sistema Paese.
Franco CALDERA da «La Voce E il Tempo» del 25 settembre 2022