Sono un cinquantenne e quindi appartengo alla cosiddetta Goldrake-generation, quella che a detta degli psicologi di allora doveva essere una generazione sfrenatamente violenta perché avrebbe assimilato le gesta guerriere dei suoi eroi televisivi. Come sia andata poi, lo si è visto. Gente che andava ai cortei e alle manifestazioni per fare colpo sulle ragazze e non per sparare colpi contro i celerini come i loro genitori. Non è che fossimo una generazione migliore della precedente, è che semplicemente avevamo chiaro fin da ragazzi la distinzione tra la finzione e la realtà. Ed è questo che mi ha spinto a chiedermi: esiste un uso educativo della violenza?
Hanno sicuramente ragione genitori ed educatori che si lamentano della eccessiva esibizione di violenza nei mezzi di comunicazione, ma attenzione alle generalizzazioni indebite. C’è una violenza che fa audience e viene adoperata con leggerezza come la sensualità, spesso volgare. Ma capita anche che sia presentata in maniera critica, per far riflettere le persone. Non è una novità, certo. Chi conosce la tragedia greca e in particolare l’«Orestiade» di Eschilo sa che gli omicidi che costellano la trama – peraltro sempre evocati ma mai esibiti, come era abitudine del teatro antico – non sono sfoggio gratuito di brutalità, ma servono a trasmettere un messaggio importante di riconciliazione ai cittadini che assistevano alla rappresentazione: odio e vendetta non portano da nessuna parte.
Sul versante religioso, la violenza è un tema che pone non pochi interrogativi al credente, perché la Bibbia ne è piena, non solo nell’Antico Testamento, ma affiora anche in alcune parabole di Gesù. Siamo imbarazzati di fronte a queste pagine e preferiamo glissare sull’argomento, dimenticando che invece può essere uno spunto di riflessione prezioso. Tra gli scrittori moderni che hanno assimilato meglio la lezione biblica c’è la statunitense Flannery O’Connor. Nei suoi racconti la violenza è ricorrente e ciò non mancava di scandalizzare alcuni suoi lettori. Ecco perché si trovò a doverla giustificare: «Nei miei racconti ho riscontrato che essa è stranamente capace di ricondurre i personaggi alla realtà e di prepararli ad accettare il loro momento di grazia. Hanno la testa così dura che non c’è quasi altro sistema».
Credo che la sensibilità artistica della O’Connor l’abbia portata a comprendere la presenza della violenza nella religione meglio di tanti teologi e filosofi. Per lei, cattolica fino al midollo, la convinzione che la grazia sia l’evento più importante nella vita di una persona la porta a ritenere ogni altro elemento al servizio dello scopo prioritario, l’incontro autentico con il divino. Ecco perché la violenza, per sua natura ambigua, può tingersi del colore della salvezza: «La violenza è una forza che si può usare a fin di bene o a fin di male e tra le cose che conquista c’è il regno dei cieli».
Non so se la violenza sia in grado di redimere chi è sprofondato negli abissi del male, ma se riesce a scuotere dal loro torpore i credenti tiepidi è già una gran cosa.
Gian Luca CARREGA su «La Voce E il Tempo» del 22 gennaio 2023