VII. Riflessione sulle esequie cristiane

Riprendiamo, nella consueta rubrica liturgica, la rifl essione sulle esequie, rinviando per la lettura degli articoli precedenti al sito internet della diocesi (sezione: Argomenti). Molto c’è ancora da dire, e soprattutto da fare, perché la Chiesa non si limiti a subire l’inevitabile incrocio tra l’esigenza religiosa della cosiddetta religione civile (la quasi totalità dei funerali si svolge ancora in chiesa) e la proposta cristiana della fede.
 
Seppellire i morti e consolare gli affl itti appartiene al dna del cristianesimo: ma pure a quell’umanesimo che si prende cura dell’umano in tutte le sue forme e situazioni di vita. Tale cura prende la forma di parole, gesti, riti, rivolti al morire e a coloro che sono nel lutto. Sono gesti e riti che – se valorizzati – possono essere ancora capaci di stabilire un legame di coesione sociale, tanto più prezioso in questo tempo di crescente individualismo, nel quale si sbriciolano i legami sociali primari (la famiglia, il vicinato). Sono gesti e riti che possono e devono essere capaci di dare voce e linguaggio all’esperienza della morte, che sempre ha a che fare con il sacro, qui inteso come quell’oltre della vita che ci interpella ed insieme ci supera.
 
La Chiesa è forte di una tradizione plurisecolare, che si esprime in parole di senso, gesti di prossimità, riti di speranza. E tuttavia non può adagiarsi in una stanca ripetizione dei propri temi e delle proprie istituzioni. Occorre affi nare una parola sempre più sobria e profonda dal punto di vista teologico–spirituale (sulla morte, sui temi dell’escatologia, sull’anima e sul corpo, sul dolore e sul destino). Occorrono gesti e riti capaci di lasciar trasparire la consolazione di Dio e della comunità.
 
Tutto questo in un contesto di crescente commercializzazione del servizio funerario, che si traduce in un’offerta di servizi sempre più concorrenziali, tesi ora a personalizzare l’evento funebre, ora ad occultarlo il più in fretta possibile, sollevando le famiglie da tutti quegli impegni (lavare e vestire il corpo del defunto, contattare la parrocchia, organizzare il funerale…) che nei tempi passati erano considerati espressione di affetto e di pietas.
 
L’indebolimento delle tradizioni religiose (che tende a ridurre l’insieme dei riti funebri intesi come riti di passaggio), la supremazia della tecnica e della scienza medica (che tende ad appiattire la morte in senso tecnico, allontanando non solo i parenti più prossimi dal malato, ma il malato stesso dalla propria morte), l’individualismo (che intende sollevare da ogni responsabilità i parenti, disponendo in anticipo e in piena autonomia la propria uscita di scena), sono un fatto evidente, da inquadrare in una tendenza generale alla rimozione della morte.
 
E tuttavia è importante sottolineare concretamente la presenza di indicatori contrari, quali la persistenza «locale» delle tradizioni relative alla gestione del lutto, soprattutto nei paesi; la crescente richiesta di personalizzazione del congedo dal defunto e dell’elaborazione del lutto, sovente guardata con sospetto dalla Chiesa; l’affacciarsi di nuove pratiche funerarie come la cremazione e conseguentemente la creazione di nuovi luoghi e riti che rompono il monopolio della Chiesa. Da tutto ciò la Chiesa è invitata ad interrogarsi sulla qualità spirituale, etica ed estetica dei propri riti, nonché sulla solidità e sull’effi cacia della propria azione pastorale. Concretamente ci soffermeremo nei prossimi numeri su alcuni temi quali: la cremazione e i problemi annessi (dispersione, affi do delle ceneri…); i linguaggi del rito da valorizzare (soprattutto la musica, il canto, i fi ori…); il contenuto dell’annuncio cristiano nella predicazione; la possibilità di istituire e formare ministeri specifi ci per accompagnare il lutto, prima, durante e dopo il funerale; il rapporto con le agenzie di pompe funebri.
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