VIII. La cremazione

«Da oggi a Torino, la cremazione è un servizio a spese del Comune. La cremazione non cancella il ricordo. Non brucia l’anima. Non è peccato. E non prende spazio». L’annuncio pubblicitario, comparso qualche anno fa sulle strade delle nostre città, è visualizzato da un angelo tutto d’oro, che sorregge nella mano destra un’urna cineraria. Colpisce nel manifesto il riferimento a temi religiosi, quali l’anima, il peccato, l’angelo, tesi a placare la polemica con cui nei secoli passati si è proposta la pratica della cremazione.
 
Pur essendo una pratica antichissima, la consuetudine di bruciare i morti non è infatti stata mai adottata dai cristiani. La motivazione era di ordine non solo culturale (la fedeltà alla tradizione giudaica e agli usi del tempo), ma pure teologico: contro le pratiche pagane di incenerimento e imbalsamazione, la Chiesa ha mantenuto un certo equilibrio tra l’annientamento che distrugge il corpo e la mummifi cazione che cerca disperatamente di strapparlo alla corruzione. Per i cristiani, il modello della sepoltura rimane quello dell’inumazione di Gesù, primo seme gettato nella terra in vista della risurrezione. È a partire dal 1700 che la pratica cremazionista è stata rilanciata, per ragioni igienico–sanitarie, oltre che ideologiche (la negazione dell’immortalità dell’anima e il rifi uto del dogma della risurrezione della carne nell’anticlericalismo di stampo massonico).
 
L’autorizzazione della cremazione da parte della Chiesa (dal 1963) è pertanto condizionata alla garanzia che tale scelta non risulti dettata da motivazioni contrarie alla dottrina cristiana. L’incinerazione dei cadaveri, infatti, non tocca l’anima e non impedisce all’onnipotenza divina di ricostruire il corpo: per questo motivo non costituisce un gesto intrinsecamente cattivo o di per sé contrario alla religione cristiana. La viva raccomandazione è comunque quella di custodire la tradizione di seppellire i cadaveri (Codice di diritto canonico, 1176, 3), ricorrendo alla cremazione solo in caso di necessità. Una raccomandazione che deve essere accompagnata dall’educazione ad una complessiva sensibilità spirituale e pastorale relativa al morire e al lutto, che si traduce a sua volta in tanti piccoli atteggiamenti e decisioni: dai fi ori agli annunci funerari, dalle iscrizioni funebri alle tombe, dallo stile della preghiera alla cura della celebrazione. Diversamente, l’invito a non ricorrere alla cremazione apparirebbe come una rigidezza isolata, a fronte dei vantaggi di tale scelta dal punto di vista economico (bara più semplice, incentivi dei Comuni, non necessità di successive esumazioni…) ed ecologico (minore ingombro di spazio…).
 
Intanto alcuni problemi insorgono, soprattutto nelle grandi città, dove cresce la percentuale delle cremazioni: la diffi coltà a sentirsi a casa nella cosiddetta «sala del commiato» del «tempio crematorio», fortemente segnata dall’immaginario massonico; la presenza di un rito civile di commiato, che per quanto si ponga in un atteggiamento di laicità ospitale, non è mai del tutto «innocente». Nella misura in cui fa riferimento a valori semplicemente umani, quali la pietas, il ricordo, appiattisce inevitabilmente il senso cristiano del morire e dell’affi dare a Dio i propri defunti.
 
Vi è poi la delicata questione della possibilità di disperdere le ceneri o di custodirle privatamente, recentemente resa attuabile da una legge regionale più precisa. Su questo ci soffermeremo nella prossima rubrica, per valutarne le ragioni della non opportunità. Una cosa è certa: oggi più che mai, la preparazione alla morte non è più solo un fatto spirituale e individuale, ma assume spiccate dimensioni etiche, relazionali e civili. Là dove bisogna scegliere come morire, urge una seria catechesi, a cominciare dai discepoli più vicini delle nostre comunità.
 
don Paolo TOMATIS
 
 
 
 
 
condividi su