In occasione della Festa dei Lavoratori (1 maggio) e di San Giuseppe Artigiano loro patrono, pubblichiamo di seguito e in allegato il Messaggio dell’Arcivescovo mons. Cesare Nosiglia.
«Cos’è stato per noi il Covid-19
Lo scorso anno ci siamo trovati impreparati perché disorientati e increduli. Nessuno di noi mai avrebbe immaginato che cosa volesse dire confrontarsi con questo tipo di pandemia. Dopo il primo lockdown, in molti albergava il legittimo desiderio e auspicio che il peggio fosse alle spalle. E invece abbiamo conosciuto altre ondate di contagi e ulteriori misure di restrizione alla libertà personale con le implicazioni psicologiche, sociali, economiche e lavorative del caso.
Dopo oltre un anno possiamo però iniziare a interpretare (o almeno esercitare qualche tentativo) cosa sia stato il Covid per il mondo del lavoro, per la nostra economia e per la tenuta sociale del Paese del nostro territorio. In tal senso vi propongo tre chiavi di lettura.
In primo luogo possiamo affermare che il Covid sia stato una sorta di evidenziatore: ha sottolineato problemi, tensioni e fratture già presenti nel nostro sistema produttivo ed economico, sia sul lato delle imprese, sia sul lato dei lavoratori.
In secondo luogo è stato uno straordinario acceleratore di processi latenti e un possibile fonte di innovazione e spinta verso i cambiamenti. Pensiamo alla questione dell’innovazione tecnologica: elemento latente del nuovo modello economico e al tasso di pervasività che ha assunto. Il digitale è diventato (quasi) l’unico spazio con cui conservare e preservare la socialità.
In terza battuta la pandemia ha rappresentato un’amplificazione di fenomeni già presenti: il divario tra chi ha avuto possibilità e opportunità (anche dentro questa crisi) e chi invece sta pagando un caro prezzo. Stando sempre al fenomeno della pervasività del digitale si può sostenere quanto La crisi pandemica ha amplificato le opportunità di coloro che già operavano nel settore e con le infrastrutture dell’economia digitale e le problematiche di chi invece accumulava un notevole ritardo in questo specifico campo. Accelerazione e amplificazione possono quindi promuovere nuove opportunità, ma anche nascondere possibili nuove diseguaglianze.
Ansie, preoccupazioni, ma anche aspettative e prospettive
Pertanto vorrei condividere insieme alla comunità civile le preoccupazioni che in questi difficili e sofferti mesi ho intravisto nel mondo del lavoro.
Nonostante il blocco dei licenziamenti vigente su tutto il territorio nazionale si è perso quasi un milione di posti di lavoro su tutto il territorio nazionale. Tale dato ci ricorda come le protezioni sociali non abbiano riguardato l’universalità della popolazione lavorativa, evidenziando appunto una grossa frattura tra coloro che sono raggiunti da qualche forma di tutela e ammortizzatore sociale e coloro che ne sono sprovvisti. Troppe persone con contratti di breve durata (a termine e con altre formule non standard) hanno visto perdere la loro unica fonte di certezza economica. Ma ha svelato anche la debolezza di un sistema economico segnato da coloro che vivono a giornata, attraverso esperienze di lavoro molto frammentate vista l’alta informalità in cui sono inseriti.
La realtà della cosiddetta gig economy (o dei “lavoretti”) ha svelato tutta la sua fragilità ampliandosi a dismisura grazie agli effetti della pandemia. La mancanza di adeguate tutele rende le persone che lavorano in questi comparti dell’economia come “scarti”. E questo diventa inaccettabile eticamente, socialmente ed evangelicamente insostenibile.
Molti lavoratori e lavoratrici hanno inoltre sperimentato in maniera forzosa lo smart working (sarebbe più corretto, per come si è manifestato chiamarlo “lavoro da casa”). Anche in questo caso abbiamo potuto notare le grandi differenze tra coloro che hanno potuto (fortunatamente) proseguire la propria attività professionale e coloro che invece, per la condizione intrinseca del loro lavoro, hanno visto un notevole rallentamento, se non addirittura un brusco immobilismo.
Tra le realtà che hanno particolarmente sofferto le implicazioni sociali della pandemia vorrei ricordare in particolare due situazioni: quella femminile e quella dei giovani. Tutti i dati ci dicono che ad aver peggiorato notevolmente la loro situazione ci sono le donne (che spesso per occuparsi della famiglia) hanno dovuto rinunciare al proprio lavoro e i giovani, i quali, di fronte alle nefaste previsioni sul futuro continuano a fermarsi, immaginando che per loro non ci sarà più posto nella società e nel mondo del lavoro.
All’interno di coloro che hanno visto peggiorare nettamente la loro condizione sociale non ci sono solo i lavoratori dipendenti, ma anche quelli autonomi che vedevano nel proprio lavoro l’unico mezzo di sostentamento e sopravvivenza quotidiana; in particolar modo penso ai piccoli artigiani e ai piccoli esercizi commerciali che stanno vivendo un vero e proprio dramma sociale. Le necessarie misure di contenimento hanno creato forti disagi e problemi, nonostante l’impegno delle istituzioni pubbliche nel sostenerli nella maniera più adeguata possibile.
Ecco che il Covid ci ricorda che gli eventi traumatici (e le implicazioni/ricadute sociali) non sono uguali per tutti, almeno nel suo effetto. Molto dipende dal contesto entro cui quell’evento avverso si inserisce. La vicenda pandemica ha riguardato tutti noi, ma con riflessi molto differenti tra loro. Per usare un’espressione metaforica mi viene in mente l’immagine delle imbarcazioni nel mare: tutti siamo stati travolti da un’ondata imprevista, ma, più o meno inconsapevolmente, abbiamo viaggiato su imbarcazioni molto differenti tra loro. E la tipologia delle imbarcazioni non riguarda solo le risorse (materiali) a nostra disposizione, ma anche con quelle immateriali: di possibilità, di protezione sociale, di competenze professionale, di relazioni sociali e di natura personale.
È necessario però scrutare il futuro attraverso lo sguardo della speranza. Non possiamo permetterci di uscire da questa gravosa crisi senza gettare le basi per la costruzione di un nuovo paradigma sociale ed economico. Spesso si è detto che ne saremmo usciti migliori: ma tutto ciò dipende dalle capacità di progettare e costruire una società che sia autenticamente fondata sulla dignità della persona. Papa Francesco nella Laudato Si’, ci ricorda che la crisi ambientale è anche crisi sociale, che i fenomeni sono interconnessi. Diseguaglianze, ambiente ed economia sono facce di una stessa medaglia.
Preghiamo tutti quanti il Signore che questa inaspettata e brusca crisi possa generare un nuovo modello sociale e che non sia interpretabile come una mera ripartenza. Non dobbiamo riprendere come se nulla fosse, ma cercare di scartare ciò che non andava, valorizzando gli elementi positivi.
Abbiamo dinnanzi a noi una grande responsabilità e in primo luogo dobbiamo cogliere anche gli aspetti propositivi che possono uscire da questa tragica emergenza.
E allora mi permetto di sottolineare due particolari evidenze.
La prima è di carattere culturale (oltre che sostanziale): solamente il lavoro conferisce dignità alla persona umana e senso della propria esistenza. Attraverso il proprio operare ci sentiamo più uomini e più donne; si tratta di una lezione che abbiamo appreso tutti. I sostegni e ristori sono utili per non cadere immediatamente nella trappola della povertà, ma molti hanno sperimentato la fatica del vuoto, del non poter lavorare e prestare la propria opera per il bene comune. Papa Francesco, incontrando i lavoratori dell’Ilva di Genova ci ha ricordato che
La Dottrina sociale della Chiesa ha sempre visto il lavoro umano come partecipazione alla creazione che continua ogni giorno, anche grazie alle mani, alla mente e al cuore dei lavoratori. Sulla terra ci sono poche gioie più grandi di quelle che sperimentano lavorando, come ci sono pochi dolori più grandi dei dolori del lavoro, quando il lavoro sfrutta, schiaccia, umilia, uccide. Il lavoro può fare molto male perché può fare molto bene. Il lavoro è amico dell’uomo e l’uomo è amico del lavoro
La seconda è di carattere strutturale. Se il lavoro rimane primo veicolo d’inclusione e cittadinanza, proprio per non acuire ineguaglianze e fragilità, serve ripensare al nostro sistema di welfare in maniera innovativa e coerente con le trasformazioni operanti.
Alla luce di queste due considerazioni, della storia di Torino (sia sociale, sia ecclesiale) penso si debba costruire un movimento e un’alleanza che operi nell’ottica dell’inclusione sociale attraverso la programmazione di innovative politiche per il lavoro e di esperienze di welfare comunitario. E in questo spazio penso ad un nuovo protagonismo della comunità cristiana sui temi del lavoro e del welfare in chiave pastorale.
Possiamo ripartire dalla straordinaria (e forse inconsapevole) prova di resilienza che persone, imprese, organizzazioni del Terzo Settore, stanno mettendo in campo in questo periodo. Sono fiducioso che molte delle piccole e medie imprese (quelle che più di tutte stanno faticando in questo momento) non solo oggi stanno esercitando un piccolo ruolo di ammortizzatore sociale nei confronti dei propri dipendenti, ma giocheranno un ruolo decisivo nella nuova ripartenza.
Per valorizzare il lavoro nell’ottica dell’inclusione e della cittadinanza e avere imprese resilienti servirà ancor di più puntare sulla formazione delle persone. L’aspetto educativo e quello della formazione professionale permanente sarà da considerarsi come uno strumento di welfare preventivo nei cambiamenti repentini, e spesso traumatici, che l’economia conosce. Si tratta di una questione che lo stesso Primo Ministro Mario Draghi quest’estate aveva sottolineato con forza nel suo intervento al Meeting di Rimini:
I sussidi servono a sopravvivere, a ripartire. Ai giovani bisogna però dare di più: i sussidi finiranno e resterà la mancanza di una qualificazione professionale, che potrà sacrificare la loro libertà di scelta e il loro reddito futuri. La società nel suo complesso non può accettare un mondo senza speranza; ma deve, raccolte tutte le proprie energie, e ritrovato un comune sentire, cercare la strada della ricostruzione
L’esperienza della pandemia ci sta però ricordando che solo insieme si possono vincere le grandi sfide, mediante l’attivazione di logiche cooperative tra società civile, istituzioni, imprese, lavoratori (e loro sistemi di rappresentanza), scuola e formazione.
La capacità di un sistema sociale, istituzionale ed economico di perseverare nelle logiche cooperative e non competitivo-conflittuali è quindi una competenza strategica, per attivare una co-progettazione dello sviluppo. Servono luoghi e attori che possano facilitare questa impresa, uno sforzo importante, in cui la città deve forse ancora fare in conti con la propria perduta identità. Il futuro dell’area metropolitana torinese, lo sviluppo economico, la tenuta del lavoro sono quindi un campo d’interesse di tutti e non solo di alcuni attori specifici; non esistono in questa partita incursioni di campo, perché si tratta di un terreno in cui ciascuno deve fornire il proprio contributo secondo lo specifico punto d’osservazione».