All’inizio del mio ministero episcopale, ho scritto una breve lettera – come tutti ben sapete – nella quale invitavo la Chiesa torinese (che conoscevo già per esservi parte da sempre) a prendere atto della situazione del nostro essere cristiani oggi. Un contesto nel quale non si deve porre l’accento – come verrebbe spontaneo – soltanto sulla contrazione del numero e l’invecchiamento dei preti, ma anche sul fatto che i cattolici non coincidono più con la totalità della popolazione.
A partire da qui ponevo la questione essenziale, per la nostra Chiesa, di ripensare il nostro modo di essere presenti ed esistere come comunità cristiana sul territorio. Dobbiamo infatti prendere consapevolezza in modo lucido che mantenere semplicemente e stancamente il modello attuale significa condannarci a non essere più una presenza capace di trasmettere la ricchezza inesauribile e coinvolgente del Vangelo alle donne e agli uomini di oggi, tanti dei quali hanno una sete immensa di vita, di senso, di amore e di relazioni calde, in una parola, di Dio.
Per questa ragione, ciò che stiamo vivendo e che è chiesto alla nostra Chiesa è qualcosa di bello e avvincente. La domanda è una sola: essere oggi una Chiesa fatta di comunità vive, nelle quali non solo si parla, ma si sperimenta davvero il Regno di Dio, di cui la Chiesa è come un germe. È il Signore, vivente in mezzo a noi, che ci chiede di essere cristiani gioiosi, a motivo di quella relazione con lui e tra di noi che ci è data di vivere e, dunque, testimoni credibili del fatto che vale la pena lasciare tutto e seguirlo. Lo sappiamo bene: questo mondo e questo tempo non sanno che farsene di cristiani stanchi, lamentosi, accidiosi, parte di un ingranaggio che si muove secondo la logica del “si è sempre fatto così”, forse senza neppure più sapere perché si fanno determinate cose…
Il cammino di ascolto reciproco, compiuto quest’anno, aveva lo scopo di riconoscere in noi e intorno a noi tutto quello che ci appare come promettente, un “germoglio” appunto di comunità cristiane vive e impegnate nell’annunciare il Vangelo.
Ora, a partire da quanto emerso, si tratta di muovere qualche passo concreto di cambiamento della nostra presenza sul territorio; di modificare qualcosa di quel che può concorrere a tal fine; e di dare il via a qualche nuova iniziativa in questa direzione.
A me spetta, questa sera, indicare qualche criterio attorno al quale pensare il cambiamento e accennare ad alcune scelte operative, che verranno poi dettagliate dai vicari.
Vorrei però sgomberare sin da subito il campo da una possibile tentazione: quella di vivere questa sera e quello che verrà con l’atteggiamento dell’attesa messianica, quasi che ci si possa aspettare la salvezza da scelte concrete, inevitabilmente limitate e storicamente condizionate da fattori che spesso non dipendono da noi.
Dobbiamo invece vivere i passi che proveremo a delineare nella fiducia profonda che l’Atteso è Cristo e soltanto Lui; e che tutto quello che facciamo e scegliamo serve se ci aiuta a rimanere nell’attesa della Sua venuta, se ci è di sostegno a vivere nella speranza ardente che Egli venga e che venga presto. Noi non attendiamo delle scelte o dei cambiamenti; noi facciamo delle scelte e dei cambiamenti, per rimanere sempre meglio in attesa della venuta di Nostro Signore Gesù Cristo. Noi siamo come in esilio, come afferma san Paolo; e viviamo in questo mondo da stranieri e pellegrini, come dice san Pietro. È l’attesa del Signore ed è il vivere di Lui, sin da ora, che debbono rimanere il criterio di verifica permanente di tutte le nostre scelte. Senza questo, tutto ciò che chiamiamo pastorale rischia di essere vanità!
Ciò premesso, vorrei indicare tre criteri di fondo: l’ascolto della Parola viva di Dio e la formazione; la centralità dell’Eucaristia nel giorno del Signore; la fraternità tra di noi, che si espande su tutti coloro che incontriamo.
Questi criteri, presi insieme, ci consentono di verificare che cosa è indispensabile per essere autentiche comunità cristiane e, allo stesso tempo, di modulare modi diversi di essere comunità, oltre che di strutturare legami efficaci e duraturi tra le comunità.
Perché ci sia una comunità cristiana è indispensabile che vi sia un ascolto costante della Parola di Dio, che non può essere confuso con una conoscenza biblica di tipo intellettualistico, ma deve corrispondere ad un ascolto di Dio che continua a parlarci in modo vivo e a chiamarci costantemente alla fede in Lui. E ci deve essere un nutrimento costante, dal livello intellettuale a quello della orazione, della fede dei credenti che – specie oggi – se non viene alimentata, si perde o non è aderente alle profonde trasformazioni della nostra esistenza. Ciò si può concretizzare in esperienze diverse, come percorsi di catechesi per ogni età, esperienze di preghiera, cammini di lectio divina, proposte di conoscenza della Scrittura che sboccino in un dialogo personale e comunitario con il Signore che parla…
Ma perché si possa parlare di comunità cristiana è anche indispensabile che ci si incontri nel giorno del Signore nella celebrazione eucaristica e che si viva la festa di questo incontro e di questo giorno. È infatti in forza del dono del corpo di Cristo che noi diventiamo il corpo di Cristo che è la Chiesa. È cibandoci di Lui che noi diventiamo una cosa sola con Lui e tra di noi. E per rimanere quello che siamo abbiamo bisogno ogni domenica di nutrirci della vita che ci offre Cristo, di fare l’esperienza della vita nuova che sgorga da quell’incontro, di sperimentare che pur essendo diversi tra noi – per età, cultura, censo, sensibilità, luoghi di provenienza – diventiamo una cosa sola in Lui. Il fatto poi che sia il presbitero a presiedere l’Eucaristia evidenzia che tocca a lui presiedere la comunità cristiana e che la sua presidenza è indispensabile perché si possa parlare di comunità cristiana in senso pieno.
Infine, ciò che nasce dall’ascolto costante della Parola e dalla celebrazione eucaristica è una fraternità che deve essere reale, nel senso che ci fa fare l’esperienza concreta del sentirci in cammino con altri, di percepirci responsabili della loro fede e interpellati dai loro bisogni, di qualunque genere essi siano (da quello dell’amicizia e dell’ascolto a quello economico), di sentire che noi stessi siamo oggetto di cura e di attenzione reale da parte di altri e custoditi dai fratelli nella nostra fede. Non solo: questa esperienza di fraternità – così necessaria in un mondo individualista come il nostro – è l’unica vera anima e l’unico vero motore di ogni attività caritativa e sociale. Nel senso che se non c’è questa reale esperienza fraterna tra noi, che nasce dal sentirci una cosa sola in Cristo, ci potrà essere volontariato uguale a molto altro volontariato o filantropia uguale a tanta altra filantropia… ma non è detto che ci sia ancora la caritas cristiana!
Tutti sappiamo che tante esperienze ecclesiali hanno esaurito la loro stagione vitale. Eppure noi abbiamo bisogno, per essere Chiesa, di fare in modo che questi criteri continuino a essere i pilastri solidi della nostra vita.
A tal fine, dovremo cercare di mantenere vive le comunità laddove finora ci sono state parrocchie anche piccole, soprattutto se c’è ancora qualche elemento significativo, in modo che non si perda quell’esperienza di prossimità e di legame fraterno nel Signore che lì si può creare e custodire. Del resto, anche nei contesti più piccoli, si possono tranquillamente svolgere alcune attività importanti come, ad esempio, mantenere aperta la chiesa, pregare insieme al mattino e alla sera, disporre di un ufficio o di uno sportello in cui raccogliere le esigenze di diverso tipo, conservare qualche proposta catechistica, svolgere un’attività caritativa proporzionata alle forze disponibili e comunque raccogliere le esigenze che ci sono, incontrare gli anziani e prendersi cura dei malati.
Al contempo, però, abbiamo necessità che alcune altre dimensioni vitali siano svolte ad un altro livello, per testimoniare in maniera efficace la novità del Vangelo. In questo senso, dobbiamo guardare a territori più vasti, sempre più in sintonia con i luoghi di vita dei cristiani e di quelli ai quali vogliamo rivolgerci: penso, per esemplificare, ai complessi scolastici frequentati dai ragazzi e dai giovani; ai luoghi di lavoro in cui convergono gli adulti; ai centri sanitari e ad altri servizi a cui si fa riferimento nella vita di ogni giorno.
Anche in relazione a tutto ciò, possiamo immaginare che alcune dimensioni della nostra vita comunitaria possano trovare un respiro più ampio rispetto a quello delle parrocchie tradizionali. Si può pensare, per esempio, che una comunità in cui proporre ai giovani un percorso serio e avvincente non sia più fatta a livello di singole parrocchie, ma coinvolgendo diverse comunità e scegliendo anche le strutture (ad esempio l’oratorio) in cui convergere. Sempre per esemplificare, si può pensare che un’attività caritativa, che sia davvero l’espressione di una fraternità cristiana vissuta, sia organizzata a livello di più comunità limitrofe, individuando risorse umane, organizzative ed economiche provenienti dalle diverse comunità e il luogo adeguato in cui convergere.
Qualcosa di analogo e di ancora più decisivo lo dobbiamo dire della celebrazione eucaristica domenicale. Non possiamo più limitarci, come si è fatto spesso in passato, a garantire la possibilità della Messa domenicale più comoda, soprattutto se ciò ha come conseguenza celebrazioni poco curate (dalle letture, all’omelia e al canto), che non sono l’espressione di una comunità cristiana in tutte le sue componenti (dai ragazzi agli anziani) e che non permettono di esperire la gioia di incontrarsi tra fratelli.
Si deve pertanto avviare un processo che ci porti gradualmente a strutturare una rete di comunità presiedute da un prete, possibilmente coadiuvato da altri preti e da diaconi, costruita intorno a “un centro eucaristico”, cioè a quel luogo in cui le comunità convergono per la celebrazione eucaristica domenicale. So bene che questo obbligherà molti a spostarsi; ma so altrettanto bene che viviamo in una società nella quale ci si muove per ogni cosa (dalla spesa, al lavoro, al medico…). Se ci teniamo alla nostra vita cristiana, potremo dare più rilievo al valore di una celebrazione eucaristica viva e coinvolgente che alla fatica di qualche spostamento.
Sono altresì cosciente che questi cambiamenti dovranno realizzarsi in modi e tempi differenti a seconda dei luoghi in cui ci troviamo. La nostra diocesi è molto vasta e differenziata e ciò implica che si dovrà tenere conto dei contesti diversi, come ascolteremo tra poco dalle prime indicazioni offerte dai vicari. Sarebbe ideologico e astratto un piano di ripensamento che coinvolga tutte le comunità allo stesso modo. Cominceremo ad avviare qualche progetto in alcuni luoghi determinati, ben consapevoli che si tratta di processi che esigono un accompagnamento che implica la corresponsabilità mia, dei vicari, dei parroci, dei diaconi, di altri ministri e delle comunità tutte.
Promuovere un tale mutamento esige anche la trasformazione di quelle realtà che devono servire a tale scopo. Penso, in primo luogo, alla curia diocesana. Mi pare di poter dire che essa necessiti per diversi motivi di un cambiamento, le cui coordinate verranno esposte dal vicario generale. Il primo motivo è che essa è per molti aspetti ancora strutturata secondo uno schema di Uffici che avevano la loro ragion d’essere negli anni immediatamente successivi il Concilio Vaticano II, ma che oggi risultano pleonastici, sia in termini di servizi offerti sia di costi sostenuti. Mancano, invece, servizi di cui oggi ci sarebbe estrema necessità. Il secondo motivo è che essa deve prevedere una maggiore assunzione di responsabilità da parte di laici, donne e uomini. Il terzo è che deve diventare sempre più chiaro ciò che così chiaro non è sempre, cioè che la curia è a servizio del ministero del vescovo e della vita della Chiesa locale, e non certamente all’inverso. Su questa base è indispensabile avviare un processo di cambiamento, che chiederà ulteriori sviluppi e il contributo fattivo del personale che lavora in essa.
Infine, queste trasformazioni richiederanno mutamenti anche nel modo di concepire il ministero ordinato; coinvolgeranno le consacrate e i consacrati attivi nella nostra Chiesa; e ci sproneranno a consolidare alcuni ministeri laicali e a suscitarne di nuovi.
Tutto ciò implicherà, infatti, che il ministero dei preti sia pensato, dove possibile, secondo un modello diverso rispetto a quello classico del prete di una sola parrocchia o di più parrocchie, ciascuna delle quali però rimaneva un mondo chiuso in sé stesso. Esso dovrà poi anche essere – talora in misura prevalente – un ministero di presidenza di altre ministerialità diaconali e laicali, chiedendo a tutti una collaborazione stretta e – mi auguro – arricchente. Quanto al ministero dei diaconi, andrà pensato come un ministero plastico, che prevede cioè modi di attuazione diversi, anche in relazione alle possibilità e ai talenti di ciascuno. Si può immaginare un ministero che sia in primo luogo a servizio della cura di quel tessuto di relazioni dei credenti tra loro e dei credenti con gli altri, che nel tempo passato era scontato e costituiva il presupposto delle comunità cristiane e che nel contesto attuale, invece, va continuamente ricreato.
Per quanto concerne le consacrate e i consacrati, ritengo indispensabile che il tentativo di ripensarci sul territorio debba coinvolgere anche loro nel domandarsi anzitutto dove orientare la loro presenza, affinché la vita consacrata possa essere percepita ovunque come un elemento determinante per il realizzarsi della Chiesa.
Il cambiamento implicherà anche la possibilità e la necessità di nuovi ministri laici istituiti, attraverso un percorso di formazione almeno biennale, con un processo di discernimento che coinvolgerà anche il vescovo attraverso i suoi collaboratori. Tali ministeri verranno istituiti per la durata di cinque anni: il limite di tempo servirà a fare in modo che i laici che assumono un servizio non debbano farlo in perpetuo e a tenere viva la necessità che anche altre laiche e altri laici si rendano disponibili.
Tra questi ministeri ci saranno quello del lettore, dell’accolito, del coordinatore dell’annuncio e della catechesi, del coordinatore delle attività caritative, e quello particolarmente importante di membri di équipe-guida di comunità senza la presenza stabile di presbitero.
Quest’ultimo è un servizio indispensabile laddove ci siano piccole comunità in cui non è possibile la presenza costante del presbitero. Non si tratterà di un servizio svolto da un singolo, ma da un gruppo ministeriale composto da almeno tre persone, in modo che sia evidente che il servizio della presidenza è svolto sempre e solo dal prete.
Al fine di avviare tutto ciò si istituirà, già dal prossimo anno, un nuovo Istituto per Formazione, per fornire gli strumenti indispensabili per svolgere questi ministeri e che, in prospettiva, dovrà diventare il centro propulsore e coordinatore di tutte le iniziative formative della diocesi.
Anche di questo vi verrà detto in seguito, in maniera più dettagliata.
Torino, 9 giugno 2023
Mons. Roberto Repole
arcivescovo di Torino e vescovo di Susa
INTERVENTI DEI VICARI:
- la riorganizzazione della Curia (mons. Alessandro Giraudo)
- la formazione (don Michele Roselli)
- la presenza ecclesiale sul territorio (don Mario Aversano)
- conclusioni di mons. Repole al termine della Convocazione.