Il 20 maggio 1521, durante l’assedio della cittadella di Pamplona (episodio marginale delle guerre tra Francesco I di Francia e Carlo V di Asburgo) un giovane cadetto della nobiltà basca di provincia, Inigo de Loyola – che aveva trascinato la guarnigione spagnola a non arrendersi nonostante la situazione disperata – viene colpito da una palla di cannone che gli spappola una gamba. E’ l’inizio dell’avventura spirituale di colui che sarà Ignazio di Loyola e che fonderà nel 1540 la Compagnia di Gesù, assieme a nove amici di varie nazioni europee, conosciuti durante gli studi comuni all’università di Parigi (1) . Sopravvissuto e a malapena guarito, Inigo partì dalla “Casa- Torre” della sua famiglia, e lasciati i suoi abiti ad un povero, visse per vent’anni sulle strade dell’Europa, campando di elemosina e sempre più convinto che Dio lo chiamasse ad “aiutare le anime”, a partire dalla sua propria esperienza spirituale che andava facendo (cosa che gli valse otto processi con varie incarcerazioni da parte dell’Inquisizione, da cui uscì sempre assolto); la vita di “pellegrino” – come egli si autodefinisce nella sua autobiografia – fu per lui assolutamente fondamentale, ed anche i suoi primi compagni vivevano in questo modo e si facevano chiamare così; uno di loro definì la Compagnia di Gesù “pellegrinaggio nella vita religiosa” e un altro disse che la casa dei gesuiti è la strada; infatti l’azione apostolica del gesuita è caratterizzata dall’essere inviato dovunque nel mondo c’è più urgenza e universalità, a disposizione del Papa, come Ignazio e i primi compagni a poco a poco compresero, dopo un tentativo fallito di andare a Gerusalemme, e vivere lì, sulle orme di Gesù, il loro aiuto alle anime. “Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia della ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del vangelo, là vi sono stati e vi sono i gesuiti”, disse Papa Paolo VI ai membri della XXXII Congregazione Generale, che, nel 1974-75 attualizzò per la Compagnia la svolta del Concilio Vaticano II, e ridefinì così la sua vocazione: “Cosa vuol dire essere compagno di Gesù oggi? Vuol dire impegnarsi, sotto il vessillo della croce, nella battaglia cruciale del nostro tempo, la battaglia per la fede e la lotta, che essa include, per la giustizia”. Tra i membri della Congregazione Generale, guidata dal Padre Generale Pedro Arrupe, c’era anche il giovane Superiore Provinciale dell’Argentina Jorge Mario Bergoglio, che – ora Papa Francesco – ha ripetuto recentemente ai suoi confratelli quelle parole di Paolo VI, durante la celebrazione del 27 settembre 2014 per i 200 anni della ricostituzione della Compagnia (1814), che era stata soppressa nel 1773.
Ignazio ha consegnato la sua esperienza spirituale (ed educativa) ad un libricino che non è assolutamente da leggere ma da “fare”; infatti – usando la metafora di una scalata in montagna – è come uno zaino in cui trovi bussola, corde, moschettoni, cartine, perché un altro (che ha già fatto a sua volta la scalata) ti aiuti a vivere in prima persona un’avventura diretta di Dio, nel rapporto imprevedibile con lui; questo libricino si chiama “Esercizi Spirituali” e colui che guida (può essere uomo, donna, gesuita, religioso/a, prete, laico/a) si dice che “dà” (non “predica!”) gli Esercizi. Nell’esperienza di Ignazio – oggettivata in questo testo – Dio è il Creatore e il Signore, il solo assoluto; ogni altra realtà proviene da lui “come i raggi dal sole, l’acqua dalla fonte”, e deve essere concretamente scelta solo nella misura in cui “più” ci conduce a lui; egli poi è presente nella nostra vita “affaticandosi per noi e comunicandosi a noi” in ogni cosa. Ognuno – nella misura che compie un vero cammino di liberazione evangelica – può “cercare e trovare Dio in tutte le cose”, proprio perché la realtà, ed in particolare la realtà quotidiana e “laica” (la famiglia, il lavoro, i movimenti sociali, i meccanismi economici, la politica…) non è un diaframma che inevitabilmente ci separa da lui e ci disperde, ma al contrario è proprio il luogo dell’incontro: ognuno può così “en todo amar y servir”, diventando “contemplativo nell’azione”. Questo spiega anche perchè i gesuiti non hanno un campo specifico di apostolato, ma ogni realtà (dall’astronomia e dall’arte all’educazione, dal servizio della Parola e dall’accompagnamento spirituale all’impegno per i rifugiati, per i senza fissa dimora e per i diritti umani…) può essere il modo in cui incarnare la missione. Inoltre per Ignazio ogni uomo è personalmente conosciuto e amato da Dio, e questo amore invita ad una risposta, che Ignazio esprime come lode, riverenza e servizio, le forme concrete dell’amore; una risposta, per essere autenticamente umana, deve nascere da una radicale libertà, a cui la stessa esperienza di Dio conduce; la pedagogia ignaziana mette perciò l’accento sul cammino personalizzato di ciascuno, sulla massima valorizzazione dei doni di ciascuno e sul profondo rispetto del percorso di ciascuno, coi suoi tempi, coi suoi ritmi, con la sua originalità; fino a chiedere a colui che accompagna negli Esercizi “di lasciare direttamente operare il Creatore con la creatura e la creatura con il suo Creatore e Signore”; contro ogni indottrinamento, massificazione e omologazione (2) . La visione del mondo di Ignazio è poi centrata sulla persona storica di Gesù (ciò portò i primi compagni a presentarsi come “la compagnia di Gesù”, ancor prima della fondazione dell’Ordine); durante il cammino degli Esercizi Ignazio conduce gli uomini e le donne ai piedi della Croce perché, sperimentandosi salvati dentro le loro storie concrete di male e di morte, possano chiedersi in un colloquio col Crocifisso “da amico ad amico”: “Cosa ho fatto per Cristo, cosa faccio per Cristo, cosa farò per Cristo?”. Gesù ci invita a seguirlo e a condividerne la missione, appunto “sotto il vessillo della Croce”, che consiste nella povertà contro la ricchezza, nel disprezzo contro la vanagloria, nell’umiltà contro l’autosufficienza; sono questi i criteri che, assimilati nella contemplazione affettiva della vita di Gesù, possono condurre al “discernimento degli spiriti” e a scelte veramente evangeliche, al di là di ogni buona intenzione. Questo parte dalla presa di coscienza che nel profondo di noi si muovono desideri e paure, resistenze ed aperture, fiducia e sfiducia, consolazione e desolazione: è lì che il Signore ci incontra e ci parla; il “discernimento” è appunto l’arte di distinguere la sua voce da quella contraria, ed è soprattutto discernimento della gioia, perché lui è “plenificaciòn desbordante”. Ignazio e i suoi compagni giungevano alle decisioni attraverso questo continuo processo di discernimento personale e comunitario (ad esempio la stessa decisione di fondare un nuovo ordine religioso, che originariamente non era affatto prevista); una analoga riflessione, nella preghiera, sui risultati della loro attività, guidava i compagni a rivedere decisioni precedenti e ad adattare i metodi da loro utilizzati, nella costante ricerca di un servizio di Dio “di maggior valore”, senza fermarsi e cristallizzarsi mai; è il “magis, il di più”, cuore della spiritualità ignaziana, in risposta a un Dio che “è sempre più grande, sempre oltre”. Lo fecero i gesuiti nella loro storia, quando per esempio realizzarono nel XVII e XVIII secolo le “Riduzioni” con gli indios della foresta amazzonica o, già dalla fine del ‘500, l’inculturazione del vangelo in India e in Cina, con i Padri De Nobili, Ricci e Valignano. Con grandi incomprensioni, contrasti e persecuzioni, che furono tra le cause della soppressione. Ricostituiti duecento anni fa, ci provano ancora oggi.
(1) I primi due – che condividevano la stessa camera di Ignazio al Collegio di Sainte-Barbe – furono Pierre Favre, originario dell’Alta Savoia, caratterizzato da una grande dolcezza e affabilità nelle relazioni con tutti, anche i più lontani e gli avversari, recentemente santificato da Papa Francesco (che lo sente come suo speciale modello di vita), e Francisco de Jassu y Xavier, di una famiglia della Navarra (che all’epoca di Pamplona combatteva dalla parte filo-francese), conosciuto col nome latinizzato di Francesco Saverio, che si spinse nel suo slancio missionario fino all’India, alle Molucche ed al Giappone, morendo nell’isola di Sancian, alle porte della Cina che voleva raggiungere.
(2) Oggi come agli inizi caratterizza i gesuiti l’appartenenza a paesi e culture differenti, ed anche la forte diversità tra di loro, che viene molto valorizzata. Alcuni anni fa l’allora Padre Generale P.H.Kolvenbach disse che i gesuiti esprimono “una sconcertante diversità”.
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